mercoledì 5 novembre 2008
A lungo l'apologetica è stata intesa come una disputa con gli avversari della fede, una sorta di duello da concludersi con una stoccata vittoriosa. Basti ricordare che nel meraviglioso Trionfo di san Tommaso che Filippino Lippi affrescò tra il 1489 e il 1492 nella basilica di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, su commissione del cardinale Oliviero Carafa: il santo, raffigurato in trono, non si limita ad additare l'errore, a terra davanti a lui (un vecchio corrucciato che ha in mano un cartiglio con la scritta «Sapientia vincit malitiam»), ma, per maggior sicurezza, gli mette sopra un piede. Tommaso, inoltre, è affiancato da quattro figure muliebri (la Grammatica, la Retorica, la Dialettica, la Filosofia) che non degnano di uno sguardo lo sconfitto. La moderna apologetica non si propone più di umiliare l'avversario, di confutare l'errore prendendo di petto (o per il bavero) l'errante: come illustra il Catechismo della Chiesa cattolica, che raccoglie l'esperienza teologica e pastorale del Concilio Vaticano II, si tratta piuttosto di esporre «le buone ragioni della fede» argomentandole in positivo, passando, cioè, dalla "dialettica" alla "narrazione". Del resto, già Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi (1975) aveva osservato che «l'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri». E dunque anche Vittorio Messori, principe degli apologisti contemporanei, ha scelto di narrare la propria testimonianza di fede, spiegando le perduranti conseguenze di quell'evento accaduto in un'afosa giornata torinese dell'agosto 1964, quando Gesù Cristo fece repentinamente irruzione nella sua vita, trasformando un ventitreenne cresciuto in rigorosa cultura laicista e passabilmente libertino, in un cristiano cattolico consapevole della responsabilità di partecipare agli altri la gioia della fede riscoperta. Ne è venuto un libro di ben 432 pagine, intitolato Perché credo. Una vita per rendere ragione della fede (Piemme, pagine 430, euro 20,00), in cui Messori ha accettato di rispondere alle domande di Andrea Tornielli, il quale, nell'indice è indicato come «Andrea Tornelli», e in effetti le sue domande sono utili "tornelli" che agevolano a Messori il passaggio di una solida e affascinante apologetica, attraverso il racconto in prima persona del suo itinerario esistenziale. Sfilano dunque davanti agli occhi dei lettori i principali problemi del cristianesimo attuale, dalla riforma liturgica alla difesa e promozione della vita, dal necessario pluralismo dei cattolici in politica («minoritari ma non marginali»), ai rapporti tra scienza e fede, tra fede e filosofia. Su quest'ultimo punto Messori rilancia l'autocritica tracciata nella postfazione a un'ennesima ristampa di Ipotesi su Gesù: abbagliato dall'amatissimo Pascal che nel celeberrimo Mémorial afferma di aver incontrato «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Non dei filosofi e dei sapienti», anche Messori era stato tentato da un aut-aut tra fede e ragione, mentre la riflessione successiva l'aveva convinto che il cristianesimo è la religione dell'et-et: gli opposti sono compossibili, come si conviene alla religione del "perfetto Dio" e "perfetto uomo". E l'et-et è lo strumento metodologico preferito da Messori (forse fin troppo ricorrente nel libro), il quale giustamente condivide il motto di Jean Guitton, altro maestro riconosciuto: «Sono cattolico perché voglio tutto». Il capitolo finale è un appassionato atto di fede e di amore per la Chiesa, con Messori che arriva a commuoversi ripetendo a memoria la Pentecoste manzoniana, versi, a mio avviso, fra i più brutti della letteratura italiana. Bellissimo, coinvolgentissimo libro, dunque, che conferma nella fede i credenti e tende una mano fraterna a chi non crede, incentrato com'è sull'incontro personale con Cristo, amato anche nel volto sindonico di cui Messori è strenuo e convincente apologeta.
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