sabato 17 febbraio 2018
Una mania quella di scrivere su pezzi di carta, resti di vecchi quaderni o su piccoli notes che riempivo quasi per tenermi compagnia. Ma il problema sorge adesso: dove metterli, cosa farne, distruggerli? Tenerli per chi? Non c'è più tempo né spazio nei nostri giorni per tenere i ricordi e gli scritti di chi ci ha lasciato o fra poco ci lascerà. Le case si sono rimpicciolite, i vani sono più stretti e i libri non necessari vivono nelle cantine in compagnia di un leggero profumo di muffa. Chi poi ha la malattia di scrivere, anche solo per se stesso, ha un problema ancora più grave quando non vuole abbandonare i temi del proprio pensiero che gli hanno forse riempito tante giornate della propria vita. Allora che farne? Distruggere tutti quei piccoli quaderni che hanno sostituito a volte un amico, che hanno aiutato a risolvere un problema a giustificare a noi stessi un errore come a confessare un amore perduto? La cosa più strana poi è che li si conserva, forse si nascondono, ma quasi mai si rileggono nel tempo. Oggi ho aperto un cassetto e ho avuto la curiosità di sfogliare un piccolo notes di molti anni fa come immagino avrebbe fatto ogni madre che avesse scritto i primi ricordi del proprio bambino. «Mio dolce, stupendo bambino – scrivevo – la tua pelle è bianca, tenera e vibrante di vita, il tuo corpo di putto è teso e attento come il gatto quando aspetta il topo. Ma quando vuoi qualcosa ti fai morbido e leggero, ti fai chiudere tra le mie braccia, mi strofini il naso coperto di efelidi sulla guancia. Chi ti ha insegnato tutto questo prima di nascere? Piccolo, dolce, già malizioso, morbido e crudele, caparbio e docile, prepotente e duro. I tuoi occhi hanno il colore della ruggine sotto il sole, i capelli hanno tre tinte, dal cenere al dorato per morire sulla nuca in un rosso pesante. La tua umanità ed i tuoi sensi sono in quel colore mentre l'oro è l'intelligenza e quei denari che ti ho nascosto nel cuore. L'innocenza che manterrai in un angolo del tuo animo è il biondo cenere che ti muore sulla fronte. Mio dolce bambino nessuno mi pagherà le tue carezze quando le perderò perché cresceranno i tuoi anni. Oggi ti stringo e vorrei riaverti dentro di me per non perdere la tua pelle dolce, le tue labbra pallide e quell'ombra sotto gli occhi, impalpabile indefinibile e chiara è la luce della fanciullezza, quasi uno specchio te la riflettesse in viso di lontano». Rileggendo queste righe penso quante volte crediamo di avere vicino un figlio solo nostro mentre egli appartiene al mondo e per questo ha avuto la vita, per aumentare la conoscenza, per offrire uno scalino in più all'umanità cui appartiene, perché il proprio passaggio su questa terra sia positivo di interessi, di volontà, di amore per il bene di tutti. È nostro con il primo grido alla vita, poi improvvisamente ti accorgi che è dell'aria, del sole, della gente, della buona e della cattiva sorte; è lui che darà seguito alla sua strada, che terrà nelle sue mani i suoi giorni, che non guarderà indietro, ma cercherà il suo futuro che non sarà il tuo, ma la ricerca del nuovo perché questa è la ragione per cui gli è stata concessa la vita. Allora non piangere madre, se non torna a casa. Tu gli hai dato un mantello perché si ripari dal freddo della solitudine, un paio di scarpe perché non perda la strada giusta, una sciarpa perché si ricordi che solo la bontà dà il colore sufficiente per vivere. Non piangere se non lo vedi, egli è davanti a te.
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