mercoledì 1 febbraio 2017
Nel pieno della sua maturità artistica, Curzia Ferrari, dopo tre sillogi poetiche pubblicate da Aragno – dagli insoliti titoli Fondotinta (2007), Lucertola (2010), Pietra (2013) –, ha affidato allo stesso editore la raccolta Semaforo rosso (pp. 98, euro 12). Nel 2004, sempre da Aragno, era uscito il romanzo A fuochi spenti nel buio.
Al semaforo rosso, automobilista, ciclista, pedone, ci si ferma, ed è sempre una pausa di pensiero. Se, come Curzia, si è poeti, «si ha il senso di tutto ciò che si è perso nell'esistere. Allora si predispone una trappola di fili dialettici per catturare l'inconscio». Questa dichiarazione è la chiave della poetica di Curzia Ferrari, tesa a razionalizzare, «con gli anticorpi del cervello», situazioni, esperienze, emozioni esistenziali. Del resto, la poesia nasce sempre da un ripensamento, anche per prendere slancio verso il futuro.
La prima parte comprende 47 poesie, e s'intitola «Il sale e le notti». Il sale ha le proprietà benefiche di conferire sapore e di preservare dalla corruzione, ma ne ha anche di malefiche: disidratazione, sterilizzazione del suolo... Il sale sulle ferite cauterizza ma è doloroso; si spargeva sale sulle rovine di una città distrutta per sigillarne la non ricostruzione. In molte religioni si fa uso sacro del sale – prima della riforma liturgica, nel rito del battesimo lo si somministrava ai bambini in segno di lotta al peccato e di conferimento di saggezza –, ma l'essenziale condimento ha anche connotazioni magiche e superstiziose entrate nel vissuto popolare: rovesciare il sale in tavola, da sempre si ritiene porti sfortuna.
Ferrari evoca il sale 5 volte: alla nascita del suo primo figlio, «occorreva una cura preventiva a base di ferro, potassio,/ e soprattutto di sale amaro – il magnesio/ che elettrizza gli aghi del sangue e li rende spietati»; e lo stolto che sogna d'essere Dio? «Niente tesoro occulto, come risultato finale/ nemmeno un pizzico di sale»; insofferenza della poetessa per un'insoddisfacente routine quotidiana, «e l'elzeviro acrobatico/ per il giornale, roba senza sale»; e tuttavia, «era una notte di sale./ Il sale lavò tutte le scorie»; fino a «Sapevano che a grani di sale grosso/ mi stavi scrivendo quella lettera/ che adesso leggere non posso».
Come si vede, il sale per la poetessa conserva la sua polivalenza apotropaica, vantaggiosa o distruttiva. Ma più a fondo, e non solo sullo sfondo, c'è una ricerca del divino che nella poesia più emblematica, «Tu», viene allo scoperto e andrebbe riprodotta per intero: «Io ti seguo. Tu mi giri le spalle e ogni tanto parli. [...] Abbiamo ritmi diversi./ Ma tu vòltati, Signore».
La seconda parte del libro, «Intorno a Puškin», è una sorpresa per il pubblico italiano. Curzia Ferrari, apprezzata russologa, presenta 5 poeti della Plejade di Puškin, il padre della lingua russa: «Sono talenti colti e nobili che la rete sortiera della parola puškiniana ha risucchiato in una zona dove l'apprendimento di certi ritmi e canoni linguistici è una gara, una corsa a farsi il più possibile vicini alle intuizioni del maestro, a impadronirsi del suo misterioso metronomo che scandiva versi di magica fluidità e bellezza».
Se Pëtr Andreevic Vjazemskij (1792-1878) è un diplomatico che invia saluti a un amico italiano, Anton Antonovic Del'vig (1798-1831) sussurra elegie amorose anche in forma di sonetto. E mentre Nikolaj Michailovic Jazykon (1803-1846) accusa il collega Cadajev di occidentalismo antipatriottico, Evgenij Abramovic Baratynskij (1800-1844) trova accenti leopardiani nel domandarsi: «A qual fine il monotono scorrere dei giorni?». Infine, la giovinezza di Aleksandr Ivanoviv Polejaiev (1805-1838) gli fa scrivere invettive contro il suo stesso popolo: «In Russia rispettano/ lo Zar e la frusta./ Lo Zar con la frusta/ è come il Pope con la croce». Voci lontane che non perdono risonanza e vigore perché, come ammoniva Umberto Saba, «il dolore è eterno/ ha una voce e non varia».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI