giovedì 29 ottobre 2020
Sono sempre stato contrario ai processi mediatici, perché inquinano la verità. Oggi ne sono ancora più convinto. L'informazione e la giustizia hanno tecniche comunicative differenti e, soprattutto, tempi diversi. I media hanno un linguaggio semplice, diretto ed emotivo, troppo spesso puntano al sensazionalismo e propongono l'apparenza come certezza. Il linguaggio della giustizia, invece, è freddo, tecnico, propone un ragionamento complesso che intreccia regole logiche e giuridiche. E, sebbene i media si esprimano in genere con i verbi al condizionale, l'impressione è che si tratti di una cautela di facciata per non esplicitare una verità ormai acquisita, ancorché formalmente ancora in corso di accertamento. Se fosse possibile, l'ideale sarebbe evitare di fornire nomi e foto prima che il processo sia concluso.
L'informazione e la giustizia, poi, hanno tempi così diversi. La prima obbedisce al calendario, anzi all'orologio, e misura la sua qualità sulla capacità di interporre il minor tempo possibile tra l'evento e la sua narrazione; la seconda segue il ritmo imprevedibile delle indagini e del processo, misurando la sua qualità sulla capacità di assicurare la migliore ponderazione possibile nel passaggio dall'ipotesi di un evento al giudizio sulla sua fondatezza. Negli ultimi decenni, questa congenita differenza si è accentuata in modo intollerabile e con effetti preoccupanti: processi celebrati con tempi "geologici", da una parte; un'informazione sempre più rapida e incalzante, dall'altra. E, in genere, puntata soltanto sulla fase delle indagini, il che produce effetti fuorvianti sulla pubblica opinione.
Così accade sovente che l'iscrizione della notizia di reato o l'informazione di garanzia acquisti valore di accusa, la formulazione dell'imputazione quello di condanna, la misura cautelare quello di pena, la sua revoca quello di un'assoluzione. Un'ulteriore, grave distorsione è data dal rapporto tra fonti giudiziarie e giornalisti: quando non vengono rispettati i limiti di segretezza e i divieti di pubblicazione, che tutelano l'esigenza di riservatezza delle fasi iniziali delle indagini, si creano pressioni sui protagonisti del procedimento penale: magistrati, polizia giudiziaria, personale ausiliario, parti, avvocati, consulenti, testimoni. L'intonazione della cronaca giudiziaria, a causa della dipendenza dalla fonte (che quasi sempre riporta la versione di chi indaga), finisce per avere tendenzialmente un segno colpevolista. E vi posso assicurare che ciò è vissuto in carcere con grande tensione e pesantezza. Ma il processo dovrebbe assicurare a tutti giustizia e verità, non giustizialismo e desiderio di vendetta.
Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso" di Rebibbia
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