
Sono stanco di sentire ripetere la famosa frase di Nelson Mandela: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo». L’ho sentita in decine di convegni, centinaia di conferenze, mille saluti istituzionali. Chi deve preparare due cose da dire sul valore dello sport, cita Mandela e va sul sicuro: «Lo sport ha il potere di ispirare, di unire le persone» eccetera, non ci si sbaglia mai. Sono profondamente convinto della verità del concetto espresso da Mandela, ma il punto è un altro. Il punto è che, con lo sport, Mandela l’ha cambiato veramente il mondo, e che quel discorso Madiba lo tenne nel 2000, un quarto di secolo fa. Nel frattempo il mondo è cambiato di nuovo, in peggio. Chi tacciava come “buonismo” l’occuparsi di diritti, inclusione, uguaglianza, solidarietà, anche solo gentilezza, oggi mette in scena una modalità simmetrica e speculare che sarebbe tempo di iniziare a chiamare per ciò che è: “cattivismo”. A qualsiasi livello, dal bullismo scolastico a quello istituzionale, il “cattivismo” si fonda sul disprezzo del diverso, sull’umiliazione degli ultimi, sulla sopraffazione degli sconfitti, sulla prepotenza verso i deboli; il “cattivismo” alza muri per dividere, separa, lacera, tiene il dito perennemente puntato su un nemico e, con improvvisi testacoda valoriali, rende il cattivo buono e il buono cattivo, l’amico nemico e il nemico amico. George Orwell scriveva nel 1949 (ambientandolo nel 1984) di un mondo dove la paura e l'odio verso un nemico sempre diverso servono per mantenere il controllo sulla popolazione, dove gli slogan sono: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L'ignoranza è forza». Leggere queste parole oggi mette i brividi, ma tanti continuano a recitare a memoria le parole di Mandela senza, tuttavia, fare nulla per cambiarlo, questo mondo. Voglio rendere merito a chi ci prova, magari in silenzio, come Tom Pidcock, il ciclista che non ha approfittato della caduta di Tadej Pogacar in un momento topico di una delle più importanti gare di inizio stagione: le “Strade Bianche” attorno a Siena. Pogacar in questo momento è un marziano, non c’è praticamente modo di batterlo, eppure, nell’occasione della rovinosa caduta dello sloveno, il britannico Pidcock non l’ha attaccato. Si è rialzato sui pedali, l’ha aspettato, poi ha tentato di tenergli testa, non riuscendoci, e alla fine ha perso, accumulando quasi 1’30” di distacco. «È un campione del mondo – ha detto – per cui ovviamente lo rispetti e lo aspetti». Quando, nello sport, qualcuno decide di aspettare un campione si distingue per fair-play, quando, invece, qualcuno decide di aspettare i più fragili sta davvero cambiando un paradigma. Succede, in questi giorni, a Torino dove, l’8 marzo, sono stati inaugurati gli Special Olympics invernali, agoni sportivi con cadenza quadriennale, dove attraverso lo sport unificato (dove atleti con e senza disabilità intellettive hanno l'opportunità di competere insieme), si costruisce un mondo di inclusione, integrazione e rispetto. Gli atleti, come ai Giochi Olimpici, il giorno dell’apertura fanno un giuramento: «Che io possa vincere, ma se non ci riuscissi, che io possa tentare con tutte le mie forze». Tentare, con tutte le proprie forze, di cambiare questo mondo con lo sport: loro lo fanno, senza fermarsi alla citazione di Mandela.
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