martedì 18 dicembre 2018
«Forse un giorno un nuovo tentativo di creare un'Europa unita sarà fatto, e magari avrà successo se terrà conto delle lezioni passate». A meno di sei mesi dal voto per il nuovo Parlamento della Ue, ormai ridotta a 27, questa frase andrà tenuta a mente, nel caso il responso delle urne confermasse le previsioni prevalenti di un esito sfavorevole al rafforzamento della “casa comune”. A pronunciare quelle parole è stato, due anni fa, lo storico e giornalista Walter Laqueur, ebreo tedesco nato a Breslavia (oggi la polacca Wroclaw), famiglia distrutta nell'Olocausto, rifugiato in Israele nel 1938, divenuto infine cittadino americano. All'epoca di quell'ultima intervista a Giulio Meotti per Il Foglio, aveva già 95 anni e la sua scomparsa, alla fine di settembre di quest'anno, non ha avuto forse la risonanza che meritava. Laqueur ha pagato probabilmente una comprensibile fama di profeta di sventure europee, che si era guadagnato quando sono apparse alcune delle sue opere più famose. Già nel 1979 pubblicò un saggio – Un Continente smarrito – che denunciava rischi per la tenuta dei diritti fondamentali nelle nostre terre. Tre decenni più tardi, è uscito Gli ultimi giorni dell'Europa – Epitaffio per un Vecchio Continente, seguito nel 2012 da un saggio non tradotto in Italia sulla “fine del sogno europeo”. A quel punto, un po' tutti hanno avuto la conferma che la sua analisi non lasciasse speranze all'originario progetto federalista. Andava dunque respinta senza neppure essere analizzata, magari in nome della political correctness?
In realtà, lo storico figlio della Mitteleuropa, tra i più prolifici e versatili del Novecento, ha sempre esercitato il suo mestiere di ricercatore con grande rigore, pur non nascondendo una sottile vena pessimistica sull'uomo in genere, figlia di un vissuto personale che non lo portava certo a scommettere sulle “magnifiche sorti e progressive”, quelle irrise un secolo e mezzo prima dal nostro Leopardi. Lo ha dimostrato in oltre 70 opere che spaziano dal nazismo e la Shoah al comunismo e alla storia sovietico/russa (con un ultimo originale saggio sul “Putinismo” e le sue tentazioni autocratiche), senza dimenticare Medio Oriente, terrorismo e servizi segreti.
Da ultimo però, proprio sui destini futuri dell'Europa, si è mostrato incline a correggere le previsioni più nere, invitando a non esagerare in disfattismo ed escludendo che la culla dell'Occidente sia condannata a scomparire dalla scena mondiale, o peggio ancora ad essere sepolta sotto la cenere come Pompei. È vero, il ridimensionamento del suo peso è già in atto da tempo, così come sussiste il rischio di trasformarsi in una sorta di “Disneyland” per i ricchi signori delle nuove economie emergenti.
Ma la chiave del suo pensiero finale è nelle parole riportate in apertura: l'invito a tener conto degli errori del passato. Tra di essi, Laqueur cita la dilapidazione del “credito morale” nei confronti degli altri popoli e la “timidezza” di fronte alle minacce, derivante dal timore di perdere il proprio benessere materiale. Si potrebbe aggiungere la sempre risorgente voglia di supremazia interna, che consuma quanto resta del pensiero solidaristico coltivato negli anni della prima costruzione comunitaria. Oppure l'illusione di qualche singolo Paese di mantenere, in caso di disgregazione, un proprio peso rilevante sulla scena mondiale. Tutti comportamenti che gonfiano le vele politiche delle forze nazionali più euroscettiche. La cui vittoria finale tuttavia non è scontata, neppure in caso di successo elettorale. A condizione che l'eventuale “scossa” negativa delle urne imprima un nuovo e più convinto slancio unitario ai governi nazionali e alle istituzioni dell'Unione.
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