venerdì 27 giugno 2014
Domenica scorsa, 22 giugno, scorro i giornali e li vedo inondati di paginate di pubblicità di moda maschile, ci dev'essere in giro qualche fiera o ricorrenza e per le donne gli appuntamenti sono forse altri. Si direbbe che la moda continui a essere uno dei settori dell'economia che risentono meno della crisi, e i cui addetti, perché la crisi li punisca di meno, spendono di più in pubblicità. (Non sembra in crisi neanche tutto ciò che riguarda l'infanzia e, anche se non lo si dice mai apertamente, il mercato delle armi). Cosa si apprende da queste pubblicità? Che la frivolezza non ha confini, e che le ditte pagano stilisti e pubblicitari per inventare differenze appetibili a una parte almeno dei giovani, per costruire "mode". «Ma chi comprerà questi modelli?», ci si chiede, perché in giro non è che si vedano tanti giovani – neanche a via Veneto o a San Babila – che si conciano, come in quelle foto, da narcisi, edonisti, vacanzieri, a caccia di sesso e voluttà sane o malsane in ambienti ideali, in una dolce vita senza fine. A occhio nudo, si direbbe che il mercato di massa sia invece sceso o precipitato ai mercatini di quartiere, che si sono moltiplicati e che offrono – soprattutto alle donne – povere frivolezze per affermare un'originalità impossibile e proclamare che «io sono mia» (o «mio»), differenze inesistenti nei fatti e gridate nelle apparenze… Si è francamente orripilati dal cattivo gusto delle "creazioni" per maschi benestanti che ci offre la pubblicità – e chi batte tutti è la ditta Dolce&Gabbana, e non da oggi: un record assoluto! – e dall'idea di moda che esse vogliono creare: un'esteriorità esibizionistica che vorrebbe tutti i giovani alti e snelli (mentre magari aumentano gli obesi) e "maschi", e allusivamente più omo o bi che etero… Un conformismo assoluto nella diversità di facciata: ma per poter "sembrare", comprate! Sono tanti i libri che imboniscono sulla moda, e i giornalisti che "seguono la moda" per via della pubblicità, esaltandone tutte le insulse "novità". Tra i libri, meglio tornare al classico Sistema della moda di Barthes (Einaudi), evitando i saggioni dei semiologi che lo imitano e i colorati volumi servilmente encomiastici che molti editori dedicano a questo dubbio settore della ricchezza nazionale.
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