venerdì 8 maggio 2015
Mi è capitato di vedere alcuni film e letto alcuni romanzi di registi e scrittori giovani e che parlano di giovani, e che procedono tutti secondo approcci di tipo psicologico, con tocchi precisi e intelligenti per quel che riguarda ambienti e psicologie comuni, con una sensibilità rispettosa di quelle dei personaggi inventati e narrati. E tuttavia si direbbe che queste "storie di formazione", o "anni di prova" come li si chiamava un tempo, si chiudano dentro un approccio che non sa vedere o non vuole vedere difficoltà altre, più vaste o radicali. È come se ci venisse detto che i giovani, oggi, gli unici problemi che incontrano nella loro crescita, nel loro ingresso nel mondo adulto, siano di tipo psicologico: il rapporto con i genitori e con l’altro sesso e quasi soltanto questo, con l’aggiunta, semmai, di una nevrosi che si esprime in problematiche caratteriali, che però gli affetti riescono alla fine a risolvere. Non altro. E non penso tanto al cosiddetto "sociale" (il precariato, per esempio, la scuola, le prospettive di una carriera professionale, lo scontro con difficoltà che si dimostrano spesso serissime non appena si esca dall’uscio di casa, dentro un contesto per mille versi preoccupante) quanto a quell’antica fatica di definirsi, di accettare il mondo come ci si rivela con tutte le sue pene, di trovare un confronto equilibrato con le proprie pulsioni e passioni, con un ego che per forza di cose è circondato e condizionato da tanti altri ego, con la natura, con la coscienza dei propri limiti a cui si aggiungono quelli che sono, né più né meno, i limiti della condizione umana, con la luce e col buio dell’esistenza. Con la violenza, con la morte, con la povertà, con l’altrui cattiveria o mediocrità. In passato, in letteratura e in pittura, questo momento di scontro col mondo, questo passaggio che sembrava obbligato per tutti, veniva chiamato da alcuni «la lotta con l’angelo» e il riferimento era molto preciso: il brano della Genesi in cui Giacobbe si scontra per tutta la notte con un angelo che lo ferisce e lo vince e che però lo ama proprio perché ha lottato con lui, un angelo che, secondo la tradizione, è poi Dio (e per questo hanno chiamato teomachia questa lotta). In una tradizione laica, scompare Dio, ma resta la forza del mondo, la violenza del suo impatto con noi, e la necessità di accettarlo e di accettarsi. La prima volta che ho letto di questa lotta non è stato nella Bibbia, ma mi pare dovesse essere in un grande romanzo di Gide che oggi pochi leggono, I falsari, ma sono migliaia i romanzi che in qualche modo vi si ispirano e la ripetono. Scomparsi dall’esperienza della maggior parte dei giovani i riti di passaggio, è comparsa anche la - non solo metaforica - "lotta con l’angelo", senza la quale non si cresce davvero.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI