giovedì 7 giugno 2018
L'avanguardia di oggi è la tradizione di domani. Lo sguardo si abitua velocemente ai cambiamenti, come succede al viaggiatore che per qualche istante si lascia sorprendere dal falso movimento imposto dal treno al paesaggio circostante, ma si abitua presto, e allora è come se il mondo gli si fosse sempre presentato così, frenetico e cangiante. Se questo del treno vi sembra un esempio di scuola, o una stratagemma ormai consolidato, il merito è di un regista tedesco molto attivo tra gli anni Venti e Trenta, Walter Ruttmann, il cui nome appare a volte anche nelle storie della letteratura italiana: fu lui, infatti, a dirigere Acciaio, il film che nel 1933 segnò il contrastato esordio di Luigi Pirandello nella sceneggiatura cinematografica. Non fu esattamente un successo, nonostante Pirandello fosse stato uno degli autori che più avevano intuito la forza e la complessità del cinema (si pensi, in particolare, al romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che porta la data del 1925).
I primi decenni del secolo scorso sono il momento nel quale il cinema dialoga più fittamente con le altre forme d'arte. Perché sta cercando una propria identità, anzitutto, ma anche perché questa stessa identità si basa in maniera strutturale sulla contaminazione fra linguaggi differenti. Un intreccio non soltanto teorico, dato che le tecnologie (senza le quali il cinema non esisterebbe) sono subito chiamate in causa. E con questo torniamo al treno, a Ruttmann e a quello che è ancora oggi ritenuto il suo capolavoro. Realizzato nel 1927, Berlino. Sinfonia di una città è il capostipite di un genere di difficile definizione, che verrebbe voglia di considerare cinema e basta. Cinema allo stato puro, se si preferisce. Non è un documentario, anche se del documentario adotta lo stile meticoloso e distaccato. E non è un racconto d'invenzione, a dispetto della presenza di brevi episodi chiaramente fittizi. L'abilità di Ruttmann sta nel passare con estrema naturalezza da un registro all'altro. La nostra attenzione è stata appena attratta da una ragazza che attraversa sorridente la strada ed ecco che ci troviamo a seguire un'altra figura femminile (interpretata questa volta da un'attrice) che, in preda alla disperazione, sta per gettarsi nella Sprea da un ponte.
Il panorama urbano esplorato dal regista è lo stesso che, nel medesimo periodo, lo scrittore Alfred Döblin sta descrivendo in Berlin Alexanderplatz (1929), altra opera fondamentale per comprendere il cambiamento che le avanguardie del primo Novecento hanno portato nella nostra mentalità. Nel romanzo come nel film, le macchine sono una presenza ricorrente. La ferrovia, la rete tramviaria, le automobili, gli scavi per la metropolitana, le turbine delle fabbriche e le centraline telefoniche: ovunque gli ingranaggi insidiano l'umanità, senza mai riuscire a soppiantarla. Nelle sequenze iniziali della sua "sinfonia" Ruttmann rafforza l'illusione che la città abbia una vita e forse anche una volontà propria, ma poi lentamente uomini e donne iniziano a popolare le vie e le piazze, fino a trasformarsi in una folla. Come un altro testo capitale di quegli anni, Ulisse di James Joyce (1922), il racconto copre l'arco di una sola giornata, nelle quale tutte le altre sono come riassunte. Ma a quasi un secolo di distanza, il dato che più colpisce è che questa concitata meditazione sul destino della metropoli moderna sia stata concepita nella vecchia Europa, e non altrove. A Berlino, oltretutto, la città che da allora non ha mai smesso di essere crocevia di tragedie e speranze, di Realpolitik e utopia. In un modo o nell'altro, non c'è città del mondo che adesso non somigli alla Berlino di Ruttmann. Se non ce ne accorgiamo è perché, come al solito, ci siamo ormai abituati al treno in corsa.
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