sabato 24 ottobre 2009
Ivescovi d'Africa, seduti uno accanto all'altro davanti ad un tavolo e noi di fronte con i nostri visi sbiaditi a interrogare, a cercare di capire le necessità, i problemi, le speranze e le ragioni di questa fascia di terra dal nome arido come i suoi deserti: il Sahel.
Le Chiese del Senegal, del Burkina Faso, del Gambia, del Mali, del Niger, della Mauritania avevano inviato anche i loro vescovi in questi giorni a Roma a partecipare al nuovo Sinodo d'Africa e alcuni di loro avevano accettato di incontrarci con semplicità e aiutarci a capire le finalità del Consiglio della Fondazione Giovanni Paolo che svolge il suo compito soprattutto nei villaggi del Sahel. Sappiamo così poco della vita di questi popoli anche se molte riviste missionarie ce ne hanno parlato più volte. Per noi tutto questo resta una storia da leggere, a volte un'offerta da inviare, senza una commozione d'animo. Allo stesso modo seguiamo le guerre d'Africa con preoccupazione forse, ma come qualcosa che non ci appartiene, quasi questo continente così variopinto nella nostra immaginazione fosse molto lontano. Poche ore d'aereo e lo si raggiunge facilmente.
Guerre che scoppiano, dicevano i vescovi anche solo per la scoperta di un pozzo d'acqua che un villaggio difende con le armi. Così si vive in quella fascia di terra dove la desertificazione aumenta ogni anno e dove le popolazioni sono le più povere del mondo. Questa Fondazione di cui oggi è presidente il vescovo del Senegal, monsignor Bassène, è nata 25 anni fa per volontà di Giovanni Paolo II per aiutare attraverso microprogetti sia nel campo dell'agricoltura, come nella scuola, negli allevamenti del bestiame, la gente del luogo affinché si impegni a realizzare anche con il proprio apporto di conoscenze, di iniziative e di lavoro ciò che è possibile. Interessante appare l'affidamento alle piccole comunità e non a singoli individui, i programmi da affrontare in modo che anche l'interesse come la coscienza del fare sia di tutti.
Questo potrebbe farci meditare su alcune iniziative che noi, gente di altri continenti, abbiamo sempre proposto attraverso tante buone iniziative, ma che infine possono essere cause di ineguaglianze e di piccole lotte interne al loro modo di essere comunità. Mi riferisco a quelle adozioni a distanza che forse danno a chi le offre una giusta soddisfazione anche per conoscere il nome del ragazzo che verrà aiutato. In questo modo però ci sarà nel villaggio, nella scuola, uno o più d'uno che sarà meglio nutrito, meglio vestito e potrebbe diventare ragione d'invidia o qualcosa di più. È certo un sacrificio rinunciare a una foto o a conoscere il nome del bambino che si vuole adottare, ma il missionario saprà come distribuire quell'affetto, che viene da lontano, fra i più poveri in eguale misura.
Ieri, in quell'incontro, stavamo assicurando i vescovi africani che anche il Comitato per una società dell'Amore, composto di soli volontari, (06/79350412) sta collaborando con la loro Fondazione nel preparare altri progetti fattibili nel Sahel. Ma sappiamo che ci dobbiamo rivolgere per un aiuto anche a quelle aziende e a quegli uomini che potrebbero con un po' di buona volontà portare sollievo a chi ha sete. Sete d'acqua e sete di vita.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: