mercoledì 29 gennaio 2014
Chi lavora muore. Se gli operai esponessero le fotografie dei loro morti mentre sudavano per il pane di tutti, il paese sarebbe pieno, meritatamente, di ritratti funebri. Ma la dignità della fatica non ha bisogno di retorica per legittimarsi: il bel tacer non fu mai scritto. Primo, in fabbrica era fra gli elettricisti più anziani e di maggiore esperienza, perciò toccava a lui la funzione di controllo, prima di dare tensione ai quadri elettrici che si avviavano. Quella volta fece un movimento falso e si trovò aggrappato ad una rete ad alto voltaggio, che fu l'orrenda sedia elettrica per la sua innocenza. Giacomo era un trattorista, col suo mezzo si ribaltò su un fianco e la tettoia del suo abitacolo gli piombò addosso come la lama di una ghigliottina e lo decapitò. Cari miei eroi del pane, mi è impossibile pensare a voi senza mormorare un requiem. Mio padre, contrariamente a me, era agilissimo e non aveva concorrenti, quando lo chiamavano ad installare dei parafulmini in vetta alle ciminiere o acquedotti. Ne è rimasto uno a forma di M, forse l'iniziale del nome dell'allora dittatore dalla mandibola volitiva. Saliva alla sommità delle ciminiere, senza imbragatura, aggrappandosi a dei pioli di ferro sporgenti nel vuoto. Si portava in spalla sia il parafulmine che gli attrezzi e, giunto in cima, lavorava a cavalcioni del bordo, ciondolando una gamba verso l'abisso interno e l'altra verso l'abisso esterno. A lavoro ultimato, quello che nessuno sa, è che scalpellava nel muro una croce per onorare le morti bianche; era la sua segreta preghiera portata direttamente al cielo, lassù.
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