mercoledì 27 agosto 2014
Chi soffre di ipertensione lo sa bene. In montagna è meglio avere molte cautele, e forse le cime più alte non sono adatte a chi lamenta questo disturbo. Ma ora una ricerca italiana in condizioni estreme sul monte Everest ha permesso per la prima volta di valutare con precisione in modo sistematico gli effetti e i rischi dell'altitudine per la pressione arteriosa. I dati raccolti confermano che la ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota causa un aumento dei valori: le conseguenze sono più marcate di notte e nelle persone sopra i 50 anni. I farmaci più diffusi contro l'ipertensione mantengono la propria efficacia fino 3.400 metri, mentre non funzionano dalla quota di 5.400 metri, all'incirca quella del Campo base dell'Everest.Lo studio, pubblicato sullo «European Heart Journal», è stato condotto nell'ambito del progetto Highcare dell'Università di Milano-Bicocca e dell'Istituto Auxologico Italiano. I suoi risultati si applicano alle persone ipertese che salgono a quote elevate per lavoro o per attività ricreative, come sci e trekking, ma non solo: la ricerca avrà importanti ricadute anche per quei pazienti ipertesi che non salgono in quota ma si trovano ad affrontare condizioni di scarsa ossigenazione, come quelli che soffrono di scompenso cardiaco cronico, apnee ostruttive nel sonno e malattie respiratorie.Non potranno andare sull'Everest, ma gli ipertesi potranno forse presto giovarsi degli studi condotti da altri in alta quota...
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