martedì 16 dicembre 2003
Non siamo ciò che dovremmo essere, non siamo ciò che vogliamo essere, e non siamo nemmeno quello che un giorno saremo. Ma grazie a Dio non siamo ciò che eravamo. Così parlava agli afro-americani degli Usa Martin Luther King, assassinato nel 1968 a soli 39 anni, dopo una vita dedicata alla difesa dei diritti civili della popolazione nera. Le sue parole, però, possono diventare anche base per una riflessione più generale sulla vita di ciascuno di noi. Se ci esaminiamo in profondità, dobbiamo con sincerità riconoscere di essere ben lontani dall'ideale di persona giusta che è disegnata nelle S. Scritture o, almeno, secondo i principi fondamentali dell'etica naturale. Siamo lontani anche dall'aver attuato tanti propositi e progetti (quello che "vogliamo essere"), così come siamo distanti dalla meta che pure, prima o poi, con sforzo e fedeltà, raggiungeremo. Speriamo, però, di poter ripetere: «Grazie a Dio non siamo ciò che eravamo». Ossia, non siamo ritornati indietro, camminando a ritroso sulla via della giustizia, abbandonando posizioni conquistate, arretrando per comodità e inerzia. C'è, infatti, un'attrazione nei confronti del passato che fa perdere la carica per proseguire e ci blocca, come la moglie di Lot che guarda indietro e si ferma per sempre. Giovanni Cassiano, uno scrittore spirituale vissuto nel IV-V sec., nelle sue Conlationes o "conferenze" destinate ai monaci, ammoniva: «Stiamo sicuramente andando indietro quando ci accorgiamo di non essere andati avanti: l'anima non può rimanere ferma». È un invito da raccogliere per rivolgere il nostro sguardo in avanti, verso un orizzonte più alto, quello appunto che ci mostra come "dovremmo essere". È, infatti, paradossale che, in un mondo così frenetico com'è quello moderno, lo spirito sia lento e impigrito, incline a fermarsi. Il cristianesimo è per eccellenza attesa e tensione perché non abbiamo qui la patria definitiva.
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