martedì 29 marzo 2005
Mi ricordo che una volta - avrò avuto 14 anni - si passeggiava insieme e domandai al babbo: «Ma, babbo, come si fa a sapere se è una cosa buona o cattiva? Se una cosa è bene o male?» E lui mi disse: «Guarda, se scegli la cosa che costa di più, probabilmente è quella buona». Questa testimonianza autobiografica è raccontata da un teologo moralista fiorentino, Enrico Chiavacci, nel libro-intervista Il cammino della morale (ed. Ancora). Il padre, professore universitario di estrazione "laica", dà al figlio una sorta di stella polare morale che precede ogni distinzione più accurata: il bene esige serietà, impegno, costanza, fatica e talora anche lotta contro se stessi. È una lezione, certo, semplice ma del tutto necessaria ai nostri giorni, quando si è corrivi nell'educare, si è pronti a concedere e a scusare sempre, si ama la via più larga del tutto e subito. In questa luce è diventato vero quello che scriveva il poeta Vincenzo Cardarelli: «Il bene è l'infrazione, il male è norma/ nella nostra esistenza». È paradossale, ma ciò che dovrebbe essere per eccellenza violazione, eccezione, infrazione non è più il male, che è accettato pacificamente e comodamente, ma lo è il bene che rimane solitario e controcorrente. È facile, allora, lasciarsi andare, giungendo fino al punto di stravolgere i valori, chiamando bene e giusto ciò che è solo facile e piacevole, gustoso e agevole. Già Isaia ammoniva coloro che «chiamano bene il male e male il bene, che scambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, l'amaro in dolce e il dolce in amaro" (5, 20).
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