
Pierre de Coubertin aveva già realizzato un sogno: quello di veder rinascere, ad Atene nel 1896, i Giochi Olimpici dell'antichità, nella nazione che li aveva ideati e ospitati per più di mille anni. Tuttavia il Barone francese, dopo i pasticci per gli abbinamenti dei Giochi con l'Expo di Parigi e Saint Louis, intuì che lo spirito originario si stava pericolosamente allontanando. Così, per restituire quell'atmosfera classica che tanto amava, de Coubertin volle fortemente che l'edizione del 1908 fosse assegnata a Roma e fece una forte opera di moral suasion nei confronti della casa reale dei Savoia, del sindaco della capitale e della Santa Sede. Animatori della candidatura italiana erano Fortunato Ballerini, segretario della Federazione Ginnastica e il conte Eugenio Brunetta d'Usseaux che aveva stanziato, personalmente, mille lire per finanziare l'evento. Ben presto però gli animi si intiepidirono.Il Governo e il Sindaco di Roma non volevano accollarsi nessun onere finanziario e, nella primavera del 1905, arrivò un parere che non poteva rimanere inascoltato. La firma era del fisiologo torinese Angelo Mosso, uno che si era messo in testa di insegnare alle nuove generazioni il desiderio di migliorarsi fisicamente. Uno, per dire, che il 1 maggio 1891, prima edizione della festa dei lavoratori in Italia, aveva fatto uscire, proprio quel giorno lì, un libro dal titolo: "La fatica" per l'editore Treves. Angelo Mosso, che con la fatica aveva un rapporto olistico e che voleva a tutti i costi riformare lo sport nelle scuole, scrisse: «Dai calcoli fatti, bisognerà chiedere al Parlamento almeno mezzo milione; e sarà denaro sciupato, perché non impareremo nulla; faremo una cattiva figura e saremo scoraggiati anche prima di cominciare, poiché sappiamo già che resteremo gli ultimi».Su pressione di de Coubertin, i Giochi furono assegnati ugualmente a Roma, ma il governo aveva altri problemi: moti di popolo, le dimissioni di Giolitti, risorse assorbite dai terremoti di Calabria e Sicilia del 1905 (preludio al catastrofico terremoto di Messina di tre anni dopo). Insomma il clima era duro e, soprattutto, i soldi non c'erano. Nel 1906 l'episodio decisivo, forse anche l'alibi perfetto: una grossa eruzione del Vesuvio fece sì che lo stesso Brunetta d'Usseaux ammainasse le vele e dichiarasse come neppure dal nuovo primo ministro Sidney Sonnino fosse arrivato sostegno. I Giochi volarono così a Londra e diventarono teatro del capolavoro imperfetto di Dorando Pietri.Roma aspettò 52 anni e, finalmente, nel 1960, i Giochi arrivarono nella Città Eterna, anche grazie al genio visionario dell'ingegner PierLuigi Nervi, che dallo sport si lasciava ispirare. Nervi firmò molte opere diventate luoghi simbolo di cultura sportiva: il GoodHope Center di Cape Town, per esempio, fu il primo impianto sportivo multirazziale, realizzato in piena apartheid, che non prevedeva percorsi separati tra bianchi e neri come in tutti gli edifici pubblici a Cape Town. Il Maxxi di Roma dedica a Nervi una bella mostra, aperta fino al 23 ottobre, che si intitola: "Architetture per lo sport" e che fra disegni, fotografie e modelli racconta come Nervi immaginò e realizzò lo Stadio di Firenze, il Palazzetto dello Sport di Torino, lo stabilimento dei bagni Kursaal a Ostia con il loro imponente trampolino e poi, proprio per i Giochi di Roma, il Palazzo dello Sport dell'Eur, il Palazzetto dello Sport di Viale Tiziano e lo stadio Flaminio. Sotto le volte "plissettate" o "nervate" che diventarono la firma architettonica di PierLuigi Nervi si è fatto, si fa e si farà tanto sport, ma non i Giochi del 2024, che avrebbero segnato, a distanza di 64 anni, un continuum simbolico con quella staticità, quella proporzione, quel raziocino che fu il filo conduttore delle opere di Nervi. D'altronde, come profeticamente scrisse il filosofo e scrittore spagnolo George Santayana: «Coloro che non ricordano il passato, sono condannati a ripeterlo».
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