giovedì 28 ottobre 2021
Non c'è giorno a Rebibbia, ma penso in tutte le carceri, che non si vedano nuovi arrivi e detenuti che escono, chi in permesso, chi agli arresti domiciliari, chi trasferito in altre carceri, chi per fine pena. Nei nuovi giunti si nota lo smarrimento di chi entra per la prima volta, dovuto anche all'isolamento sanitario per 10/15 giorni, durante il quale non possono telefonare per avvisare la famiglia o l'avvocato (anche se la legge lo permette, comunque sopperiamo noi cappellani); ci sono poi le difficoltà di capire come funziona la vita "dentro", come soddisfare le prime necessità (prodotti per l'igiene, biancheria, indumenti: anche qui, per quello che si può interveniamo noi, i volontari della Caritas e di Sant'Egidio). Quelli che invece non entrano in carcere per la prima volta, sanno già come muoversi e ritrovano subito "vecchie conoscenze". Purtroppo.
Ma la mia attenzione è soprattutto su chi esce, con i sacchi neri della spazzatura contenenti poche cose. Sole o pioggia, caldo o freddo, giorno feriale o festivo, quando hai superato quella sbarra ti devi arrangiare. I più fortunati hanno dei parenti che li vengono a prendere e una casa dove andare. Molto peggio va agli stranieri, ai senza tetto, ai molti che durante gli anni di detenzione hanno perso familiari, casa e lavoro. Sono smarriti. Non sanno nemmeno da dove iniziare il cammino verso la libertà. Così, cerchi di dare una mano: qualcuno lo indirizzi verso una struttura, che raramente si trova; ad altri dai un paio di biglietti per la metro; ad altri ancora li accompagni alla stazione, acquistando loro il biglietto del treno per iniziare il viaggio lontano da Roma e sperando che qualcuno li accoglierà.
Ma il problema più urgente di chi esce dal carcere è quello del lavoro, come sottolineo sempre. Da lì si deve partire, perché il lavoro permette di procurarsi onestamente il necessario per vivere, di cercare una casa, di essere autonomi. E allontana la tentazione di riavvicinarsi ad ambienti criminosi. È indispensabile, dunque, che i centri servizi delle carceri si attivino per favorire il più possibile la sensibilizzazione del mondo produttivo delle città per facilitare l'incontro tra gli ex detenuti e il mondo del lavoro.
Molti che escono dal carcere si aspettano in qualche modo un appoggio, o quanto meno un accompagnamento da parte delle istituzioni. Invece si sentono abbandonati, presi in giro. E io mi sento sempre più in difficoltà e rattristato nel poter fare poco o nulla per questi amici che cercano di riprendere in mano la propria vita. Un ragazzo, fuori dal carcere da qualche tempo, mi ha detto: «Sono tutte favolette, quelle che si sentono "dentro". L'assistente, gli educatori, ti promettono aiuto: "Non ti preoccupare, non fare questo, non fare quell'altro e ti aiuteremo". Io sono uscito, mi sono trovato senza aiuto e sono andato avanti con il piccolo fondo che mi sono fatto lavorando in carcere. L'unico posto l'ho trovato al dormitorio della Caritas».

Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso" di Rebibbia
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