giovedì 2 dicembre 2021
È particolarmente difficile parlare del suicidio. Andrebbero considerati vari possibili fattori causali: psichici ed esistenziali, sentimenti, ambienti, condizioni, che portano una persona alla tragica azione di togliersi la vita. Si entra nel mistero della mente e del cuore dell'essere umano, con sofferenze e processi intimi che inducono ad annullare l'istinto di sopravvivenza, che spingono a cercare la propria morte. Nella storia sono tante le riflessioni filosofiche, teologiche e morali sul tema, cercando di comprendere il grado di responsabilità del soggetto e cercando di comprendere quali possano essere le azioni psico-medico-sociali per una reale prevenzione, aiutando a trovare senso e speranza anche di fronte alla malattia e alla disabilità. Ora si è iniziato a discutere, in diversi Paesi – Italia compresa – della possibilità, a certe condizioni, di aiutare una persona malata a suicidarsi. Nel nostro Paese, nel 2019, si è arrivati alla sentenza 242 della Corte costituzionale secondo la quale non è più reato l'aiuto al suicidio (articolo 580 del Codice penale) nel caso di «proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Si possono comprendere le sofferenze, la "stanchezza di vivere", i disagi di certi malati cronici gravi, o in condizioni di disabilità a seguito di incidenti o traumi. Ma sostenere culturalmente, eticamente e legalmente l'assistenza al suicidio per questi malati suscita gravi riserve e induce a valutazioni morali e giuridiche su come prevenire una eventuale richiesta di suicidio, anziché consentire l'aiuto a esso. D'altra parte esiste già una legge (219 del 2017) che riconosce la libertà del malato di rifiutare i trattamenti proposti o in atto, assumendosi la propria responsabilità morale di tale rifiuto o sospensione. Si può accettare – anche se talvolta con disagio – che un malato chieda "lasciatemi andare", per cui, sospendendo i trattamenti, viene accompagnato con le cure palliative e la sedazione, se necessario, lasciando che la morte arrivi. Non la si provoca né si collabora al suicidio medicalmente assistito, o assistito da altri. Anzi, si ribadisce un messaggio di alto significato sociale e simbolico secondo il quale ogni persona avrà sempre una "vita assistita" e accompagnata fino alla fine, alleviando il dolore, riducendo le paure, confortandola anche spiritualmente.
Il suicidio è sempre una sconfitta, per tutti. Accettare, accompagnare, alleviare, anche quando la medicina non può più guarire o le situazioni si cronicizzano con grave disabilità o difficoltà a vivere, per dare un senso al proprio vivere e al proprio morire, è sempre un'esperienza di umanità, senza togliere la vita da sé o con l'aiuto di altri.
Cancelliere
Pontificia Accademia per la Vita
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