giovedì 29 luglio 2021
Ci sono dei casi di dibattiti pubblici in cui ci si sente chiamati a intervenire proprio perché si è d'accordo con una tesi, ma non con il modo con cui essa viene propugnata. È importante che sia parte del processo democratico di una società che le nuove idee, le scoperte scientifiche e i cambiamenti di mentalità incontrino un dibattito che scavalchi il partito preso e ovviamente la demonizzazione del parere contrario. Una pratica che anche culture antiche o diverse dalla nostra hanno coltivato per secoli, dalla argomentatio latina all'arguing delle scuole rabbiniche in cui lo stesso alunno doveva sostenere una tesi e poi quella contraria. E io ho assistito ai vivaci dibattiti teologici nei monasteri del Tibet, accompagnati da un gesto simile a un “ciak” con le mani. Un monaco poneva una domanda a un altro e il battito delle mani lo costringeva all'urgenza della risposta.
Prendiamo dunque una questione molto diffusa oggi nelle accademie, nelle scienze umane, ma anche nel mondo dell'arte e dei musei: la necessità di “de-colonizzare”. È un corollario di una intelligente lettura del mondo recente e della sua storia coloniale e postcoloniale; l'Europa e l'Occidente essendo responsabili di una visione univoca ed etnocentrica che ignora le costruzioni culturali diverse e le prospettive diverse di zone del mondo che sono state oscurate dal colonialismo. Per questo è importante il dibattito sul “de-colonizzare”, inteso come una attenzione a non universalizzare il discorso sul mondo elaborato in una parte molto limitata di esso, l'Occidente.
È giunto il momento che altre prospettive vengano messe a confronto con le nostre per de-colonizzare queste ultime. Fin qui va benissimo, se questo è un modo di relativizzare e anche giudicare la prepotenza di una certa visione. Il problema sorge, come sempre, quando ad ammantarsi di un nuovo innocentismo – de-colonizzato – siano coloro che lo fanno per evitare un confronto e mettersi di default “dalla parte di chi ha ragione”. Ho sentito in alcune sedi la vulgata “decolonizzare sé stessi” come una forma di purga liberante e molto meno come un avvio di una ricerca di un vero confronto. Non si può abdicare alla propria soggettività e all'appartenenza dubbiosa a una parte del mondo solo per buttarsi nelle braccia di un nuovo esotismo. Se si pensa che tutto il mondo non-occidentale sia il bene, il politically correct da abbracciare, si continua il percorso del colonialismo stesso che di esotismo si ammantava. Non è facendo un capitombolo della ragione che si apre l'università, l'arte, le scienze umane, i musei a una visione più complessiva e ampia del mondo.
De-colonizzare non è uno slogan, una nuova bandiera, ma una prospettiva laboriosa e attenta di ricerca. I popoli indigeni, le culture orientali, gli ex-colonizzati non sono il bene da contrapporre al male occidentale. Ne sono stati vittime, ne sono stati espropriati e negati. Ma non è il trasformarli in una umanità diversa dalla nostra che rende loro giustizia. Se si vuole essere davvero de-colonizzati occorre innanzitutto riconoscere alle altre culture e alle altre civiltà la libertà di sbagliare, di essere capaci del bene come del male, dell'essere allo stesso modo nostro potenziali latori di forme di razzismo e di discriminazione. Altrimenti tutta l'operazione puzza di una manovra per dichiararci innocenti travestendoci da altri da noi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI