venerdì 22 febbraio 2008
Qualcuno se l'è presa perché in tv ho parlato di «Vecchio Milan». Magari senza notare con quanto affetto l'avessi fatto. E ammirazione. Ce n'era tanta anche nella definizione che ho dato di "Milan All Stars": una squadra di maturi (va bene?) professionisti che, mentre provano disagio a calcare i terreni della provincia italiana e ad affrontare rivali modesti ma pericolosamente ipertattici, se ne vanno allegri e tosti per il mondo cogliendo trionfi e trofei al punto di suggerire a Berlusconi un autoconfronto con Santiago Bernabeu, lo storico patron del Real Madrid di Alfredo Di Stefano, il più Grande.
Eppure il calcio ha solidi precedenti nel campo delle scelte strategiche - come dire? - istituzionali, aziendali. La faccio breve rammentando la Juventus che, meritandosi la definizione di Fidanzata d'Italia, ha trascorso decenni collezionando scudetti e naufragando ogniqualvolta metteva il naso fuori dei confini. Poi arrivò Trapattoni che, esaltando il modulo «italianista», avrebbe in breve tempo conquistato tutti i trofei continentali. Il Milan di Ancelotti ha ereditato lo spirito di Wembley 1963, quando batté in finale il Benfica e Maldini padre sollevò al cielo la prima Coppa Campioni, dietro la quale si sarebbero messi in fila - nella bacheca di via Turati - altri diciotto trofei internazionali che son l'orgoglio del Cavaliere.
E Ancelotti, come il Trap, ha ereditato lo spirito di Nereo Rocco, frutto della stretta ma anche litigiosa collaborazione fra il Paron Catenacciaro e l'inventore del calcio italiano moderno, Gipo Viani, detto lo "sceriffo" (due scudetti al Milan negli anni '50). Molti commentatori che queste storie non solo non le hanno vissute ma neppure hanno trovato il tempo di leggerle, ignorano accuratamente il tema tattico per non dover ammettere che solo il bel calcio antico è in grado di mandarci avanti in Europa e nel Mondo, lasciandosi appena scappare una considerazione ammirata per i difensori rossoneri che anche l'altra sera «spazzavano l'area» davanti agli esagitati assalitori dell'Arsenal dotati di gran cuore, forti gambe, capaci polmoni e poco cervello.
E altrettanto fanno sorvolando sull'accortezza della Roma che, per battere gli assatanati madridisti, ha rinunciato agli splendori del gioco simil-olandese affidandosi al contropiede del "nanone" Pizarro e del giocoliere Mancini. Quel che ha dimenticato l'Inter a Liverpool, lasciando solo il fantasioso ma inesperto Ibrahimovic che avrebbe invece sfruttato al meglio la collaborazione dell'unico contropiedista naturale, Suazo. Farebbe bene, Roberto Mancini - resto nel tema affrontato in queste note - a rileggersi la storia dell'Inter di Helenio Herrera la cui vocazione era euromondiale: il funambolico Mago fingeva tattiche avveniristiche e viveva in realtà di contropiede. Raccomando il dettaglio a tutti quelli che pensano che la partita di ritorno si possa vincere solo recuperando lo spirito della splendida impresa del '65 firmata da Mazzola & C. Il Liverpool fu battuto con tre gol rapinosi, non con le chiacchiere...
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