mercoledì 28 maggio 2008
Con ammirevole coraggio e spavaldo sprezzo del pericolo, l'editrice Città Nuova ha inaugurato una collana di poesia che si chiama Versus ed è diretta da Daniele Piccini, il quale ha affidato a Davide Brullo la cura di Stella polare. Poeti italiani dei tempi "ultimi", un'antologia che non vuol essere solo un'antologia, ma comunque è un'antologia, selezionando nove poeti trentenni come il curatore (pagine 176, euro 12).
Si tratta, lo diciamo subito, del meglio che l'affollato mercato della "poesia giovane" offre oggi, e i nove poeti (dieci con il curatore) provengono, direttamente o per convergenza, dalla fucina di Atelier, e quindi sia resa lode alla pazienza di Giuliano Ladolfi che di quel cenacolo, con annessa rivista trimestrale, è mai stanco e non sempre gratificato animatore.
Brullo ha redatto un'ampia introduzione e quasi una monografia per ciascuno dei nove colleghi, risalendo a Paolo Uccello e a Sylvia Plath per Maria Grazia Calandrone (1964), a William B. Yeats per Francesca Serragnoli (1972), a Mandel"tam per Simone Cattaneo (1974), a Auden per Federico Italiano (1976), a Gottfried Benn per Isacco Turina (1976), alla lirica greca per Isabella Leardini (1978), agganci e riferimenti che la dicono più lunga sui gusti e le letture di Brullo che non sulla fisionomia dei presentati. Di Pierluigi Cappello (1967) non dico nulla perché versa il suo talento nel ditale del dialetto friulano, che riguarda i soli friulani. E se il lavoro di Riccardo Ielmini (1973) viene derivato da Vittorio Sereni (che è poeta epigonigo, e un epigono non può diventare caposcuola), avremo della lirica lacustre, mentre il pretenzioso lettore di poesia vuole afrore di salsedine.
Brullo è ben consapevole di avere tra le mani il meglio, ma non l'ottimo. Scrive, infatti: «Questa è una generazione ricca di personalità complete e differenti; non sono emersi ancora, di prepotenza, quei due o tre, quei cinque o sei nomi di riferimento, di guida, che trainino gli altri nel magma della storia». Come mai? Senza accorgersene la ragione l'ha data lui stesso nella prima riga dell'introduzione: «La poesia afferma la nostra mortalità». Orbene, che siamo mortali lo sappiamo da sempre e da soli: alla poesia si chiede di oltrepassare il tempo attraverso la parola. Diciamolo con l'aulica esattezza di Mario Luzi (poeta che peraltro non amo): «La poesia, immersa nel tempo, lavora a sottrarre alle immagini del tempo la loro temporalità». È il coraggio di sfidare il tempo ciò che manca (con l'eccezione che diremo) ai poeti antologizzati: e pertanto la mortalità muore sulla pagina, senza attraversarla.
Quando Montale (citiamo a caso) scrive: «Arremba su la strinata proda le navi di cartone», oltre a traslare il verbo «arrembare» inventa quella «strinata» proda, aggettivo non sostituibile, e così attraversa il tempo, rende immortale la mortalità. Se invece (citiamo ancora a caso), a «La lunga vita dei morti / cadrà nella gioia spuria dei nostri anni», della Calandrone, sostituiamo "la breve vita", o "l'opaca vita" di morti, la poesia funziona ancora, ma muore in pagina.
Talché, dall'antologia, finisce per emergere Alessandro Rivali (1977) con le sue storie di guerre e di sangue, perché, se di mortalità si deve trattare, almeno si muoia per una nobile causa, e quindi ecco il poemetto per i martiri di Otranto, e il poema in fieri sulla caduta di Bisanzio, dopo il ricordo di oscuri eroi della Resistenza genovese, immergendo l'autobiografia nel flusso di una tradizione che riassorbe il tempo per rilanciarlo. Rivali sceglie di mettere in lirica la Storia (Brullo), e nella riassunzione attualizzata del passato s'infutura.
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