giovedì 29 dicembre 2016
Vi sono alcuni temi sociali sui quali, per quanto sia stato raggiunto un largo consenso a livello culturale e scientifico, risulta poi difficile tradurlo in condivise scelte politiche, legislative o amministrative. Uno di questi è certamente la sanzione penale, in particolare quella detentiva. A settant'anni dalle prime discussioni in Assemblea costituente, che sfociarono in un modello coerente e omogeneo di concezione delle pene (funzione rieducativa e di extrema ratio, umanità dei trattamenti, divieto di violenze fisiche e morali nei confronti delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà), riscontriamo più d'un'incertezza nel percorso di attuazione costituzionale, nonostante il punto fermo dell'ordinamento penitenziario del 1975 e le meritorie innovazioni in tema di alternative alla detenzione. A ciò si aggiunge un'infinita stagione emergenziale, accompagnata da ricorrenti problemi (come il sovraffollamento carcerario) e scandita dalle minacce ora della criminalità organizzata, ora del terrorismo di matrice islamista, ora di entrambi. Riflettevo sul tema a seguito della lettura di una relazione del professor Gianmaria Flick, già ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale, opportunamente pubblicata, con il titolo "Una nuova cultura della pena", sulla rivista on-line dell'Associazione italiana dei costituzionalisti. La relazione è dedicata alla memoria di Alessandro Margara, uno dei più importanti attuatori del modello costituzionale di ordinamento delle pene, a suo tempo nominato da Flick a capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e con il quale ebbi modo di sperimentare, quasi vent'anni fa, una proficua collaborazione in tema di riforma della sanità penitenziaria. Un profilo, tra i molti, di tale sensazione di incompiutezza è offerto dalla cosiddetta giustizia riparativa, già altre volte affrontata su queste colonne e in questa stessa rubrica. Nonostante il consenso a livello culturale, l'appoggio dato dal Ministro della giustizia e le proposte operative emerse dal recente lavoro all'interno degli Stati generali della esecuzione penale, il collegamento tra precetto costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e posizione della vittima e dei suoi familiari resta ancora largamente sulla carta. Ai critici e incerti verrebbe da dire: la valorizzazione della funzione rieducativa e delle proposte di giustizia riparativa, e il loro reciproco intreccio, non nascono da malinteso buonismo, o da suggestioni della coscienza cristiana impropriamente e senza mediazioni calate nell'organizzazione penitenziaria, ma sono una risposta concreta e plausibile a problemi altrimenti irrisolvibili, oltre ad essere (e di per sé basterebbe) un modo per prendere sul serio la Costituzione.
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