venerdì 26 marzo 2004
Se il fare fosse facile come il sapere quello che è bene fare, le cappelle sarebbero cattedrali e le casupole dei poveri sarebbero palazzi di principi. Questa considerazione è suggerita dalla ricca Porzia corteggiata dallo spiantato nobile veneziano Bassanio nella celebre commedia di Shakespeare Il mercante di Venezia (atto, I, scena II). Essa è una variante del tradizionale proverbio secondo il quale tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. E', infatti, piuttosto facile riuscire a «sapere quello che è bene fare», cioè conoscere la verità, la giustizia, la generosità. Tutt'altra cosa è imboccare quella strada e perseguirla con coerenza e costanza. Ci si accontenta piuttosto delle vie di mezzo, delle proposte modeste, degli esiti meno impegnativi. E' così che abbiamo cappelle dove ci potevano essere capolavori di architettura e squallidi condomini dove si potevano erigere palazzi. Fuor di metafora, la pigrizia e il gretto egoismo ci fanno accontentare di piccole mete e di mediocri progetti. Anzi, in molti casi a ciò che è bene fare si sostituisce il male più disponibile e meno arduo. Vorrei, però, aggiungere una piccola osservazione a margine della frase di Shakespeare. Ci dev'essere, certo, l'impegno a fare il bene ma spesso non si bada a fare bene il bene. Si dirà che è solo questione di stile o di forma. In realtà, non di rado la forma è sostanza: un atto di generosità compiuto con freddezza o, peggio, supponenza ne ferisce il valore. Un'opera eseguita con approssimazione, uno studio senza accuratezza e così via ne ridimensionano di molto il significato. Occorre, dunque, fare bene il bene.
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