venerdì 8 giugno 2018
«Mamma mia, dammi mille dollari che in Libia voglio andar». Nell'Oltrepò Pavese così è stato trasformato il canto popolare che nella seconda parte dell'Ottocento era l'inno degli emigranti dell'Italia settentrionale. Allora la meta era l'America, il prezzo cento lire e i connazionali in partenza (oggi diremmo migranti economici, la maggior parte in modo illegale) erano molti di più di coloro che negli ultimi anni sono sbarcati in Italia: in meno di 100 anni, più di 25 milioni.
È dalla loro storia, o meglio dei loro canti, che la facilitatrice linguistica Charo Segrè della cooperativa Finis Terrae insegna l'italiano ai richiedenti asilo dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) di Varzi, Casa Matti, Montacuto e Godiasco, all'inizio degli Appennini. «Le canzoni popolari degli emigranti italiani – spiega Segrè – sono adatte per imparare la lingua, anche per analfabeti, perché hanno una sintassi facile, frasi che si ripetono, immagini che si possono disegnare». Per studiare l'imperfetto ha proposto la filastrocca "Ero in bottega tic e tac", diventata "Ero in Libia tic e tac". «È piaciuto scoprire – dice – un elemento di comunanza con la storia degli italiani. Un fatto inaspettato, che li ha molto stupiti».
Questo ha interrogato anche la popolazione dei comuni dei Cas, dove tutti hanno un parente emigrato in Argentina o altrove: a Varzi la cooperativa Finis Terrae ha organizzato una serata in cui si alternavano i canti del coro locale con quelli riadattati dai profughi. A seguire, per tutti – italiani e non – un quiz sulle migrazioni.
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