martedì 21 aprile 2020
Dopo quaranta giorni di libertà (scritti a parte) uno mi ha chiesto cosa penso della (presunta) fuga di Higuaín. Sono arrivato - con licenza - nella valle di Ghirlanda, una distesa di piccole viti che a luglio cominceranno a mostrare i primi grappoli d'oro di zibibbo di Pantelleria. Due agricoltori - a distanza di venti metri l'uno dall'altro - curano il loro tesoro naturale e non fanno domande, le gridano. Son quasi tutti juventini e interisti, i panteschi, e ho quasi sperato di trovarli almeno divisi dalla passione, questi due. Invece, sentito il bianconero preoccupato per il “Pipita” (che dopo essere stato trattato da traditore a Napoli si beccherà del disertore a Torino), l'altro quasi infastidito ha gridato:«Ma pensate di ricominciare?». Il tono, più o meno quello di Cellino, sarcastico: forse è un tifoso del Palermo che gliel'ha data su. Li ho lasciati in pace e la risposta - annoiato e arrabbiato - me la sono ridata da solo dopo averla diffusa su tutti i media, compresa la Domenica Sportiva dove ho ritrovato vecchi amici che mollato Sky lavorano con Skype. Oggi faccio il punto, infilo il messaggio in una bottiglia e lo affido a questo mare che l'indirizzo di casa l'ha sempre trovato, a cominciare da Ulisse che seppe sfuggire alla malía di Calipso e riabbracciare Penelope. Chi troverà il messaggio, lo consegni a Gravina e Malagò. I quali sanno come la penso. E infatti Gravina continua a dirmi «non mollo». Mentre l'amico Malagò fa quel che può con la Divina che guida la ribellione - non faticosa, please - degli «altri sportivi» che hanno subito rinunciato a giocare. Primo il Rugby, uno sport di satanassi scappati a gambe levate; poi il basket che s'accontenta di una conclusione...virtuale. E via così, mostrando un sano disinteresse per il maledetto business che contiene anche una versione fallimentare. Io credo a Gravina, a Mancini, a tutti gli uomini di buona volontà: toh, anche a Spadafora, ma so quant'è difficile salvare il calcio non dai “nemici” esterni ma da quelli di casa. I peggiori. Infatti, dopo l'interruzione anche gli snob che hanno sempre schifato il calcio, col nasino in sù, stanno accusando l'astinenza, proprio come il popolino. Io ho voglia di giocare, di vedere assegnati lo scudetto e i posti in Europa. E non mi preoccupo tanto dei costi - come Cairo - e della retrocessione - come Cellino - ma soprattutto delle “provinciali” che hanno lavorato duro per riveder le stelle: dico alla rinfusa del Palermo, del Cesena, del Bari, del Monza, della Reggina, del Crotone, del Benevento. Prima regola (mia): i campionati vanno conclusi, il vero calciofilo non ha altre opzioni. Un'impresa non può non chiudere il bilancio. Seconda regola (idem): si ricomincia quando si può. Quando il Governo libererà i cittadini dall'ottantena e i lavoratori torneranno a lavorare, gli imprenditori a investire nella ripartenza (finalmente il neologismo sacchiano usato a proposito). Quando gli italiani riavranno cuore per rivivere l'amata follia pallonara. Giugno? Luglio? Agosto, invece delle strampalate tournée asiatiche o oceaniche? Semplicemente: prima si chiude il 19-20 poi si comincia il 20-21. Secondo le regole. Onde evitare Tar e Bar ribollenti di rabbia o stupidità. Giocheremo il Mondiale del 2022 in Qatar d'inverno per il puro godimento di Blatter e Platini, perché non spostare altre date dopo tanta pena? Nonostante gli annunci falsi degli ipocriti, nessuno vuole il calcio a tutti costi. «Prima la salute» l'ha detto Zhang, quello dell'Inter, non altri. Il calcio vuole solo riprendere il suo posto d'intrattenitore degli italiani. Che dopo il Coronavirus ne avranno bisogno: ho vissuto la seconda guerra mondiale sulla Linea Gotica - come vivere sull'orlo dell'Etna - e garantisco che la prima medicina, dopo la pace, è un sorriso. Ce lo donò il Grande Torino, poi fu dolore e amore. Il calcio non è stupido, il calcio - aggiorno il pensiero di Sartre - è metafora di una vita non agra ma dolce.
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