mercoledì 29 dicembre 2010
Il popolo che ha abitato l'India tremila anni fa non ci ha lasciato monumenti, rovine, tombe, planimetrie, suppellettili: ha lasciato una sterminata architettura di parole in una lingua perfetta, il sanscrito, perché samskrta significa appunto «perfetto». E non si tratta di poemi che narrino clamorose gesta, conquiste, o liriche amorose: sono sterminate raccolte di cerimoniali per i sacrifici, narrazioni di un complicatissimo pantheon in cui i Deva (gli dei) lottano con gli Asura (gli antidei), e dietro ogni narrazione pulsa l'asat, l'immanifesto, che esonda sul dicibile. Questo popolo ario è assillato dal primato della conoscenza: Veda è il sapere, e l'India vedica viene prima di ogni civiltà. La sua sapienza attraversa carsicamente tutte le civiltà, affiora nell'antica Grecia, innerva le civiltà semitiche, lambisce il cristianesimo e lascia inconsapevoli frammenti nei moderni, fino a Nietzsche, Kafka, Mann, Baudelaire.
A questo mondo sprofondato nella notte dei tempi, Roberto Calasso ha dedicato L'Ardore (Adelphi, pp. 536, euro 35), settimo tomo di una ricerca iniziata con La rovina di Kasch (1983) e continuata con Le Nozze di Cadmo e Armonia (1988), e poi con Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La follia Baudelaire (2008).
È un libro complesso e affascinantissimo, di sbalorditiva erudizione, che lascia un dubbio: Calasso conosce davvero in profondità il sanscrito, o si affida alle traduzioni moderne di Renou, di Staal, di Eggeling, di Malamoud, di Keith, di Kramrisch, di Geldner? In ogni caso, egli cita e collaziona questi e altri autori, misteriosi ai più, ne discute e confronta le tesi, in un'avventura intellettuale che non lascia indifferenti.
Due parole sul titolo. L'ardore (tapas, affine al tepor latino) è l'incandescenza della mente, peculiarità dei rishi, i sapienti che raggiunsero «un grado di conoscenza inaccessibile non già perché pensarono certi pensieri ma perché ardevano. L'ardore viene prima del pensiero».
Con questo siamo alla soglia che segnala la distanza fra la sapienza vedica e certa cultura occidentale (greco-ebraica-latina): per gli indiani antichi, Mente e Parola non sono sovrapponibili, la Mente è di gran lunga più illimitata. Mente e Parola si scontrano come due guerrieri, o due amanti. Gli dèi (Deva) si trincerarono nella Mente (Manas, da cui Mens), gli antidei (Asura) nella Parola (Vac, da cui Vox). Ma Yajna, araldo dei Deva, si innamora di Vac (Parola), senza riuscire a possederla perché Indra, il dio tremendo, si interpone. Ne nasce un'irriducibile tensione che nel contempo è squilibrio favorevole ai Deva.
Anche per gli antichi greci il noûs era indipendente e superiore al lógos. «Diventando Verbo», scrive Calasso e va letto adagio, «e incarnazione divina, con il Vangelo di Giovanni, il logos si riaffermava sovrano. Inconcepibile una potenza ulteriore. E con questo pensiero, la mente si legava indissolubilmente alla parola. Da allora in poi il pensiero non discorsivo sarebbe entrato nella penombra, se non nella clandestinità». Ancora Calasso: «Lo spartiacque fra Oriente e Occidente, a cui tanta pensosità è stata dedicata, viene tracciato in questo punto. Tutto il resto consegue da quella divergenza radicale, a cui l'India non avrebbe mai rinunciato».
È un'interpretazione suggestiva, ma anche semplificatrice, valida semmai per un assolutizzato razionalismo occidentale, basata com'è sulla supposta coincidenza tra lógos e verbum. Invero, nella teologia cattolica che non pretende di razionalizzare il mistero, il Figlio è Pensiero del Padre, prima che Parola con cui si comunica incarnandosi. Il Dio cristiano (cattolico) è trinitario, non si esaurisce nella seconda Persona: e la teologia mistica lascia aperto l'accesso alla vita intratrinitaria. Ma qui ci fermiamo perché il terreno si fa impervio. Riprenderemo la settimana prossima altri spunti dall'inesauribile Ardore di Calasso: bisognerà almeno accennare al soma, la bevanda inebriante che è anche un dio, e al complicato ed essenziale ruolo del sacrificio.
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