venerdì 23 dicembre 2016
Il sole non si era levato all'orizzonte che le forze di sicurezza erano già sparse nel cortile della cattedrale. Mancava una giornata alla veglia di mezzanotte, e fin sui tetti circostanti si poteva osservare il formicolare delle divise nere, con le armi puntate a scrutare le vie sottostanti.
C'è un altro Natale nel mondo, ed è molto diverso da quello che siamo abituati a conoscere, a preparare e a vivere, noi avvezzi a celebrarlo nella tranquillità della nostra luccicante confortevole armonia, spesso più assoggettati al frivolo e al consumismo dei regali e dei cenoni, addobbi e luminarie. C'è un altro Natale, più semplice, ancora più povero, ma anche più fatto segno di ostilità e intolleranza. È il Natale dei cristiani che vivono la loro fede circondati dall'insicurezza, dalle minacce, dal fanatismo e dalla paura. Sotto il giogo di chi utilizza la religione come arma d'offesa.
Per raggiungere quel Natale non occorre fare altro che oltrepassare postazioni di controllo, uomini armati, barriere di cemento erette per arginare, quasi mai ci riescono, gli effetti devastanti delle autobombe, percorrere corridoi obbligati che finiscono tutti nell'imbuto dei rilevatori di metallo, delle armi, e degli uomini bomba, farsi perquisire, e lo si fa anche cercando dentro gli abiti bianchi di purezza di innocenti neonati in braccio alle loro giovani madri. L'odio disprezza la vita, la malvagità è fertile di crudeltà.
È un Natale dove la paura ti viene incontro ancor prima di raggiungere il tuo posto di preghiera, e ti resta accanto tutto il tempo, appiccicata alla tua spalla come una scimmia. Anche quando sarai inginocchiato in devozione davanti a un altare in mezzo a tanta altra gente e forse accanto a colui che ha meditato il suo progetto micidiale e l'attacco a tradimento.
Erano tanti, quella vigilia di Natale, gli agenti in borghese, mischiati alla massa di fedeli che affollava il sagrato della cattedrale dedicata ai santi Pietro e Paolo, a Faisalabad, diocesi pakistana di 35mila chilometri quadrati, con 31 milioni di abitanti, pressoché tutti seguaci di Maometto e di Allah, cui detrarre 175mila fedeli cattolici, una manciata di credenti sparsa in piccole e soffocate enclave di povertà dove si vive per lo più svolgendo l'attività del jamadare, lo spazzino.
Ci ospitava il vescovo, monsignor Joseph Coutts, oggi arcivescovo di Karachi e presidente della Conferenza episcopale del Pakistan. Monsignor Cutts, barba sale e pepe, ad ogni parola pronunciata sapeva regalare un sorriso anche quando ti spiegava che «noi cristiani del Pakistan siamo simboli di pace, nonostante il fervore integralista ci abbia resi un facile obiettivo».
Il Natale, raccontava, in passato era sempre stata festa di gioia, la gente arrivava dai villaggi su carretti addobbati e trainati dai buoi. La gioia dei bambini accendeva il cuore delle famiglie e i canti religiosi tenevano svegli fino a tardi: «Oggi le autorità ci invitano a tenere un basso profilo, non fate questo, attenti a fare quello. E così si sono fatti rari e più stretti i momenti di gioia condivisa». E la vicenda di Asia Bibi, da oltre 2.700 giorni in carcere, è sintomo di questa tensione.
Anche Faisalabad aveva il suo piccolo mercatino di Natale, e le bancarelle per lo più esponevano oggetti della fede, crocifissi, rosari, vangeli in lingua urdu, libri religiosi, cd di musica natalizia, dvd di film sulla vita di Gesù. "I dieci comandamenti", di Cecil B. DeMille o il "Quo vadis?" di M. LeRoy, e il massimo del consumismo erano caramelle e dolciumi. Intanto che i bambini inseguivano il carretto dei gelati spinto a mano, mentre i loro fratelli più grandi, con il vestito della festa "made in China", si stimavano l'uno con l'altro nel cercare di catturare un pudico sguardo dalle ragazze.
Eppure, nonostante la minaccia di possibili azioni violente, il profumo del Natale era qualcosa che inebriava l'energia di quella povera gente, in attesa delle parole di monsignor Coutts Jesu paida hua hai, Gesù è nato.
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