mercoledì 3 aprile 2013
Si ragionava mercoledì scorso (non pretendo che qualcuno se ne ricordi) di risvegli e di metempsicosi a partire dal libro di Stefania Rocchetta, Tornare al mondo, suggestiva passeggiata tra resurrezioni, rinascite e doppi nella cultura antica. L'argomento viene ripreso oggi sullo spunto di Nessuno vorrebbe rinascere, di Stefano Brogi (Edizioni Ets, pp. 220, euro 22), che ripercorre il lungo cammino compiuto dall'idea espressa da Giacomo Leopardi nel Dialogo di un venditore di almanacchi, secondo cui nessuno vorrebbe «riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male», perché «ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene».Il severo giudizio leopardiano riguarda il male di vivere, non il rinascere che è soltanto una mera ipotesi, e se si accetta di rimanere in vita è perché si spera che il futuro abbia in serbo una sorte migliore. La conclusione logica del pessimismo esistenziale sarebbe il suicidio, e in questo senso il più coerente è stato Philipp Mainländer, discepolo di Schopenhauer, che nel 1876 tragicamente si impiccò, a trentaquattro anni, dopo aver pubblicato la sua monumentale e catastrofica Filosofia della redenzione. Brogi segue le tracce del «nolo renasci» a partire dai pessimisti antichi, si sofferma a lungo su Pierre Bayle, (1647-1706) teorico del pessimismo materialista e dell' «ateismo virtuoso», coltiva Hume e Kant, e giunge al dopo Leopardi, non senza ricordare gli autori «ottimisti». Fra questi ultimi c'è Leibniz, sia pure con motivazioni che Brogi considera un po' confuse, mentre il disperato volontarismo di Nietzsche vorrebbe essere una risposta al pessimismo di Bayle. Il più ottimista di tutti è Benjamin Franklin (1706-1790), quello del parafulmine, che, soddisfatto dei suoi successi scientifici e politici (oltretutto era un ottimo nuotatore e giocatore di scacchi), nella sua autobiografia si dichiara felice di poter rivivere la propria vita così come è stata. Anzi, sostiene che «la cosa che più s'avvicina al vivere di nuovo la propria vita mi sembra essere una rievocazione della stessa, resa durevole per quanto possibile grazie alla scrittura». Insomma, l'unica metempsicosi accessibile è l'autobiografia. Ci penserà poi Stéphane Mallarmé (1842-1898) ad allargare il campo dichiarando che «il mondo è fatto per finire in un bel libro».In àmbito cristiano (sant'Agostino ne è il portavoce) l'indesiderabilità della vita terrena «risulta non soltanto dalla sua intrinseca miseria, ma soprattutto dal confronto con la vita futura promessa agli eletti da Dio». Dopo la risurrezione, infatti, vivremo una vita tutta diversa, anche se non ci separeremo dai nostri affetti di quaggiù. Siccome chiunque scrive un libro, anche di filosofia, scrive sempre di sé, Stefano Brogi, docente nell'Università di Siena, si sente in dovere di esprimersi in prima persona sulla tesi leopardiana. Non sa decidersi per una risposta netta, ma scrive: «La sorte ha voluto che questo libro fosse scritto, in larga parte, durante la malattia di mia madre, in uno dei periodi in cui più inestricabile mi è sembrato l'intreccio di gioia e dolore che è la sostanza delle nostre vite. Non saprei davvero dire se accetterei di viverlo di nuovo, se dovessi calcolare il dare e l'avere. Però mi piacerebbe stringerle di nuovo la mano, come mi chiese di fare nell'ultima notte della sua vita. Forse quella tenerezza basterebbe per dire daccapo». Ecco: è l'amore a dar senso al bene e al male della vita, ed è per amore che si potrebbe perfino rivivere.
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