mercoledì 20 ottobre 2010
Di Walter Benjamin l'Editore Einaudi sta pubblicando le Opere complete in nove volumi, di cui sette sono già disponibili, a cura di Rolf Tiedermann e Hermann Schweppenhäuser. Ma il nome dello studioso tedesco è legato al saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, che Einaudi pubblicò nel 1966 nella traduzione di Enrico Filippini. Quel saggio, memorabile fin dal titolo, aprì a molti (parlo per me) orizzonti di modernità estetica sostenendo, appunto, che la riproducibilità tecnica spoglia l'opera d'arte dall'«aura» sacrale che un tempo da essa emanava, sottraendola dall'originaria ritualità. «Privando l'arte del suo fondamento cultuale», scriveva Benjamin, «l'epoca della sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l'apparenza della sua autonomia».
In quel lontano saggio l'autore era presentato in sole due righe e mezza: «Nato a Berlino nel 1892, Benjamin morì tragicamente nel 1940, dopo alcuni anni di esilio parigino, cercando di evadere dalla Francia occupata dai nazisti». Erano tempi (solo 44 anni fa) in cui si aveva una certo pudore a parlare di suicidio, perché quel "tragicamente" associato alla morte di Benjamin vela e svela appunto un suicidio: Benjamin, infatti, si tolse la vita il 26 settembre 1940, mentre stava per varcare, a Port Bou, la frontiera verso la Spagna in fuga dalla Francia di Vichy dove era approdato esule dalla Germania nazista. Era ebreo e, per di più, marxista.
Einaudi aggiunge ora un tassello singolare alla produzione di Walter Benjamin, la cui fortuna è soprattutto postuma: è la raccolta, sempre a cura di Rolf Tiedemann, di Sonetti e poesie sparse , che fanno scoprire poeta il fecondo e malcompreso saggista. Come dice il curatore stesso, «la domanda se il grande teorico Benjamin si dimostri come poeta lirico di livello paragonabile, è altrettanto ovvia quanto inadeguata per i suoi sonetti». Tuttavia, queste liriche, rimaste manoscritte fino agli anni '60, hanno grande interesse, proprio (ma non solo) per il contrasto tra la forma chiusa del sonetto e l'estrema libertà della dizione. Si tratta, infatti, di veri e propri sonetti (quattordici versi in due quartine e due terzine) con rime obbligate che, evidentemente, non possono trovare equivalenza nella pur elegante traduzione (gran parte del lavoro è stato compiuto da Claudio Groff). Ma già l'assenza di punteggiatura (il traduttore ha aggiunto qualche virgola, poche) testimonia un'urgenza espressiva che preme sulla gabbia formale.
Il periodare procede per stratificazioni di subordinate («ipotassi» è il nome di questa figura sintattica) che riflette una pensosità onirica e controllata. Il corpo principale della raccolta è costituito dai cinquanta sonetti che Benjamin scrisse fra il 1915 e il 1925 in memoria dell'amico Friedrich Heinle, di due anni più giovane, che allo scoppio della prima guerra mondiale si suicidò, ventenne, insieme alla fidanzata ebrea. Peccato che nell'utile Appendice che dà ragguagli sulla breve esistenza di Heinle, poeta inedito in vita, proprio nella prima riga venga datato in un disorientante 1923 il primo incontro fra Benjamin e Heinle, quando si tratta, evidentemente, del 1913.
Diciamo subito, per sgomberare il campo, che non c'è niente di morbido in queste poesie, e che l'amicizia tra i due allora studenti ebbe anche momenti concitati per la diversità di opinioni in merito alle strategie dell'associazione culturale e politica in cui militavano. Del resto, anche nelle poesie che Stefan George dedicò a Maximilian Kronberger, morto diciottenne nel 1904, i critici ravvisano soltanto una mitizzazione intellettuale dell'amico defunto.
In Benjamin, che indubbiamente fu influenzato dal clima simbolista in cui Stefan George era immerso, ricorre la metafora della vela, del vento, del mare, in un paesaggio mentale spazzato dal rimpianto. E una vena nostalgica vibra anche nelle poesie d'amore dedicate a Jula Cohn.
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