giovedì 28 giugno 2018
Al cinema la preparazione è fondamentale, ma spesso per la riuscita di un film è l'improvvisazione che conta. Prendiamo Blade Runner, classico della fantascienza (e non solo) datato 1982. Ridley Scott alla regia e uno stuolo di sceneggiatori al lavoro sulla trama, in una ridda di licenziamenti e avvicendamenti che non riescono a relegare sullo sfondo il romanzo di Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, da cui l'impresa prende le mosse. Perché di impresa si tratta, non ci sono dubbi. Fin dall'inizio è chiaro che Blade Runner è molto più della storia che racconta. Scott e la sua troupe stanno dando forma a una nuova visione del futuro, che da lì in poi sarà destinata a fare scuola: metropoli luccicanti e desolate sotto una pioggia battente, una continua mescolanza di lingue e di culture oltre che di umano e bionico, auto volanti, corpi artificiali – i famosi “replicanti” – che all'improvviso scoprono i dilemmi dell'interiorità e della metafisica. «Voglio più vita, padre», la frase che l'angelico e luciferino droide Roy (impersonato da Rutger Hauer) rivolge al suo costruttore, è ancora oggi l'emblema perfetto di una teologia declinata nei termini e con gli strumenti del grande intrattenimento popolare.
Con Blade Runner (del quale il regista canadese Denis Villeneuve ha realizzato di recente un sequel non privo di interesse, Blade Runner 2049) non si poteva sbagliare e infatti si fece di tutto per evitare errori o, nel peggiore dei casi, per rimediare. Turni di lavoro massacranti per riconsegnare ogni mattina in perfette condizioni gli uffici nei quali, di notte, si giravano le scene ambientate nel rifugio di Roy e dei suoi compagni fuggitivi, tra cui spiccava la seducente e letale Pris interpretata da Daryl Hannah. Ma ancora più impegnative furono le riprese dell'inseguimento decisivo tra il cacciatore di androidi Rick Deckard (è il ruolo che ha definitivamente imposto Harrison Ford) e l'implacabile Roy. La scenografia, in quel caso, era ricostruita in studio, ma all'ultimo momento ci si rese conto che gli edifici tra i quali i personaggi dovevano saltare erano troppo distanti l'uno dall'altro: vennero riavvicinati di poche decine di centimetri, quanto bastava per portare a termine la sequenza. Al termine della caccia, com'è noto, Roy salva inspiegabilmente la vita a Deckard e, poco prima di spegnersi, pronuncia una battuta destinata a diventare una delle più famose nella storia del cinema: «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia».
Ecco, l'improvvisazione arriva a questo punto. In origine il monologo era molto più lungo, ma fu Hauer ad accorcialo e adattarlo di sua iniziativa, dimostrando uno straordinario intuito di interprete e arrivando a commuovere, secondo la leggenda, anche il più rude dei macchinisti impegnato nell'allestimento della scena-madre. Il finale di Blade Runner, in effetti, contiene tutto Blade Runner, è la conferma di come l'umanità trovi sempre il modo di farsi strada, superando addirittura l'inerzia dell'inorganico. I replicanti rivendicano un'anima e, quando l'anima si manifesta, non possono fare a meno di riconoscerne il potere liberatorio e salvifico. Anche l'amore controverso tra Deckard e la bella ma “sintetica” Rachael (l'attrice Sean Young) ha lo stesso significato: è la rivelazione di una possibilità di cui non si conosce l'esito e che proprio per questo merita di essere esplorata fino in fondo, costi quel che costi. Succede anche nella vita, del resto, di prepararsi ogni giorno e poi, sul più bello, ritrovarsi a improvvisare.
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