venerdì 22 febbraio 2013
Partite come Milan-Barcellona per godersele fino in fondo bisogna viverle tre giorni: presentazione, match, commenti. Novanta minuti non bastano più come in campionato, cocktail di stress e mediocrità poco adatto alle disquisizioni fondamentali che contemplano ingredienti come l'arbitraggio, la moviola, i terreni pesanti, il calendario e la stanchezza fisica e mentale dei contendenti. Oggi ammiriamo il quadro di quell'impresa “storica” (ma non era già il Milan la squadra più vittoriosa d'Europa, presentata invece come vittima predestinata dei giocolieri catalani?) e ne valutiamo anche la cornice, realizzata da frettolosi profeti di sventura colti in contropiede - già: in contropiede - dall'impietosa vittoria rossonera: subito, smisurata e dannunziana esaltazione dei vincitori, frutto di pentimento, eppoi inevitabile pessimismo leopardiano pensando al ritorno. Per me contano quei novantatré minuti che nei discorsi della vigilia erano segnalati come l'inevitabile calvario milanista; è successo il contrario, il Milan ha vinto e tutti si sono rimangiati in fretta il pronostico avverso, hanno incensato Allegri e i suoi ragazzi ma non hanno mancato, nei commentari riparatori, di evidenziare «la pessima serata del Barcellona». Una Tregiorni classica raccontata da chi ha scarsa dimestichezza con i misteri e le verità del calcio e dimentica sentenze buffe ma profonde come quella di Giovannino Trapattoni («Non dire gatto se non l'hai nel sacco») o di Jean Paul Sartre che disse: «Nel calcio tutto viene complicato dalla presenza della squadra avversaria». Il Barcellona - bontà sua - gioca da tempo come se sul campo fosse solo, e ogni tanto paga pegno. Con l'Inter di Mourinho, il Chelsea di Di Matteo, il Celtic di Neil Lennon. E il Milan di Allegri. Gioca come se il grande Messi garantisse da solo la vittoria, a volte senza rendersi conto di fare un pessimo servizio al valoroso Lionel, divinizzato per le sue preclare virtù ispaniche, là dove puoi segnare più di trecento gol perché di solito giochi senza avversari ed essere scioccamente paragonato a Maradona. Il Barcellona è, a seconda delle giornate, una squadra irresistibile o una noia mortale: lo dico da tempo, ma adesso qualcuno ci ha scritto su addirittura un pamphlet, un'invettiva che andrebbe accolta da chi - come il ct Prandelli - è rapito dalle sirene spagnoleggianti e vorrebbe importare nel Paese del calcio più scaltro e produttivo i profeti della mononota pedatoria (come Luis Enrique) mentre noi preferiamo la versione fantasiosa di Elio e le Storie Tese. Piquet, dopo la sconfitta, ha inteso levare lodi al Catenaccio Italico, giusto per sottolineare l'uso di un'arma che gli spagnoli odiano, anche se ha consentito a Capello di far vittorioso il Real e a Del Bosque di aggiornare il gioco della sua potente Spagna. E al Milan di realizzare una partita di straordinaria efficacia senza bisogno di ricorrere all'antiquata “marcatura a uomo” suggerita da Berlusconi; difesa attenta e contropiede non hanno bisogno di strumenti estremi e per quel che riguarda Messi mi sovviene un suggerimento di Pesaola riferito al grande goleador Pierino Prati: «Rinforzate difesa e centrocampo e lasciategli le briglie sul collo: si marcherà da solo». I pedatori italiani fan sempre più fatica a esprimere la forza di una tradizione, per fortuna ci pensano i ghanesi Boateng e Muntari. È il Catenaccio Offensivo (o Dinamico, come diceva Bernardini) l'arma del futuro.
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