martedì 5 ottobre 2021
Quello che si apre stasera nel castello sloveno di Brdo, tra l'Unione europea e i sei Paesi dei Balcani occidentali, corre il serio pericolo di risolversi nell'ennesimo "summit" all'insegna della buona volontà espressa a parole, ma dell'inconcludenza nei fatti. E sarebbe davvero una iattura, non soltanto per le prospettive di ingresso di nuovi membri nell'Ue, ma anche per la pacifica coesistenza fra gli Stati sorti dopo il dissolvimento della Jugoslavia. E quindi per la sicurezza dell'intera Europa.
Pur presentandosi all'appuntamento con un cospicuo programma di aiuti alla regione per i prossimi sette anni (fondi e investimenti per quasi 30 miliardi di euro), i vertici di Bruxelles sanno di non avere alle spalle una forte volontà dei "27" di concludere il dialogo, fino a compiere nuovi passi verso la reale integrazione di un'area cruciale per la stabilità del continente. Non è solo questione di "stanchezza da allargamento", che affligge da tempo opinione pubblica e governanti di alcuni Paesi. Si ha l'impressione che una sorta di miopia strategica affligga ormai gran parte dell'establishment politico europeo. La settimana scorsa, proprio in vista dell'appuntamento di domani, la presidente della Commissione Von der Leyen ha trascorso tre giorni fitti di incontri nelle sei capitali di Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia, tutte presenti domani a Brdo. Ha potuto così verificare di persona, ad esempio, quanto una controversia apparentemente minore come la cosiddetta "guerra delle targhe" fra Serbia e Kosovo può riaccendere nel giro di poche ore tensioni incontrollabili. Con tanto di schieramento al confine di truppe di entrambe le parti, di allerta della Nato e di "ispezione" del ministro della Difesa di Belgrado (che non ha mai riconosciuto l'indipendenza di Pristina) in compagnia dell'ambasciatore russo. Per fortuna le parti hanno infine siglato una tregua a Bruxelles, dandosi sei mesi per chiudere la vertenza. Sostando a Podgorica, la presidente della Commissione ha poi avuto modo di capire bene a che punto è la dipendenza economica del Montenegro dalla Cina. Pochi sanno che tre mesi fa, causa la mancata restituzione della prima rata di un prestito di quasi un miliardo concesso nel 2014, Pechino stava per acquistare la "sovranità" su un bel
tratto di territorio. Lo prevedeva il contratto firmato dal piccolo Stato balcanico con il gigante cinese in caso di inadempienza. Ma a Berlino, come a Parigi e a Roma, se ne sono accorti solo in extremis, evitando (per il momento?) che gli uomini di Xi Jinping si insediassero da completi padroni nel porto adriatico di Bar, a 200 chilometri dalle nostre coste.
Infine, nella sua tappa a Skopje, la stessa VdL speriamo si sia fatta un'idea di come superare il veto bulgaro alla trattativa finale per l'ingresso della Macedonia nella Ue, giustificato da un'impuntatura linguistica di Sofia, che non riconosce al macedone lo "status" di lingua autonoma dalla propria. Tutto ciò negli stessi giorni in cui Putin e Erdogan, entrambi attentissimi alla regione al centro del vertice di domani, ostentavano grande amicizia sul vicino Mar Nero. C'è una lezione di sintesi che si può trarre dalla casistica descritta? Forse sì: il ginepraio balcanico resta una delle prove più delicate e spinose per il presente e il futuro dell'Europa. Ma cercare di tirarsene fuori o di ignorarlo, sperando di non pungersi, sarebbe l'errore più drammatico.
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