venerdì 21 luglio 2006
Ateo sin ch'è robusto/ infermo è pio./ Saprò dal polso/ quando crede in Dio. È ripetuta e risaputa la battuta del regista e attore americano Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, Freud è morto e anch'io non mi sento tanto bene». C'è un ateismo di maniera anzi, di superficie, fatto di indifferenza e distacco, pronto ad essere sciolto in una barzelletta ma anche ad essere confermato in un'esistenza amorale e rinchiusa nel proprio interesse. C'è, però, un altro ateismo ugualmente di basso profilo che ha la sua frontiera accanto a quella di una religiosità altrettanto modesta. È ciò che esprimono i versi ironici del nostro poeta ottocentesco Giuseppe Giusti, il quale evoca un comportamento molto diffuso ai nostri giorni. Finché tutto va bene, non hai certo bisogno di aiuti celesti e così la vita fila via senza nessuna ansia trascendente, senza invocazioni o riflessioni spirituali. Ma appena scatta una malattia, ecco il ricorso a Dio, a quel Dio che giustamente il teologo Dietrich Bonhoeffer, martire dei nazisti nel 1945, definiva "Il Tappabuchi" dell'insufficienza umana, un Dio manipolabile, magico, miracolistico. Ha, quindi, ragione di scherzare Giusti quando dice che questa religiosità - che non ha l'alta dignità della fede - si può misurare col termometro o dal polso. Una spiritualità autentica è ricerca costante di Dio, è invocazione nel tempo della gioia e del dolore, è attesa fervida. È, comunque, vera a proposito dell'ateo anche un'altra nota, quella del filosofo Bacone: «L'ateismo spesso è più sulle labbra che nel cuore dell'uomo».
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