Michele DolzPicasso diceva che il più grande artista italiano vivente era Mario Sironi. La cosa è interessante non solo per l'autorevolezza del vecchio Pablo ma anche perché Sironi era organico al fascismo mentre Picasso si diceva comunista. L'arte che oltrepassa gli steccati ideologici? Può darsi. Ma certamente la grandezza dell'italiano s'imponeva da sola all'occhio più acuto del Novecento.Stiamo vivendo un periodo di riscoperta di Sironi, che non è una spolverata antiquaria come in altri casi, ma un rinnovato, genuino stupore dinnanzi alla sua arte. Il tempo poi ha fatto cadere i connotati di regime, ha depurato la sostanza poetica. Alle varie mostre degli ultimi anni si aggiunge ora un'approfondita biografia critica scritta dalla massima studiosa dell'artista, Elena Pontiggia, sui materiali dell'archivio Sironi, in buona parte inediti (Mario Sironi. La grandezza dell'arte, le tragedie della storia, Johan & Levi, 304 pagine, 28 euro).In queste pagine viene fuori l'uomo Mario Sironi, con i legami familiari, l'amore per la moglie Matilde, l'esasperata sensibilità, le crisi depressive, il lavoro tenace, le amicizie. Le opere emergono, coerenti, da queste inquadrature. Ed ecco il suo ex libris disegnato da giovanissimo nel 1903: un uomo impiccato alla forca con gli avvoltoi che gli volano intorno. Un ex libris è qualcosa di personale, scrive Pontiggia, «e la scelta di un'immagine così lugubre rivela già una dimensione drammatica che rimarrà costante nella pittura dell'artista». Del 1905 è un autoritratto energico e ombroso, come di un giovane in pena. Ma Sironi non diventerà un pittore triste, malgrado le apparenze. Sarà l'artista che meglio di tutti saprà catturare sulla tela i valori e i pericoli della civiltà urbana, e non ricopiandola ma reinventandola.Superati i momenti futurista e metafisico, il Sironi che amiamo si svela dopo l'incontro con Margherita Sarfatti, la nascita del Novecento italiano – che ha lui come leader – e l'avvento del fascismo. È l'epoca dei paesaggi urbani. «La loro durezza è una metafora dell'esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita», nota l'autrice. La Sarfatti scriveva nel 1920: «Da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l'artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta "luxe, ordre et beuté". Le ha glorificate con una comprensione contenuta e semplice dei loro elementi tragici». Quel Nocevento italiano, nato in casa Sarfatti, aspirava a una moderna classicità che avesse come cuore i "valori umani", come lei li chiamava, tornare a dipingere l'uomo nella sua compiutezza ideale. Era la versione milanese del Ritorno all'ordine. Sempre dalla Sarfatti nacque l'amicizia con Mussolini. Sironi vedeva in lui una speranza per le arti in Italia. E vedeva giusto, com'è ben noto. Eppure, puntualizza Pontiggia, la sua arte non diventerà mai un'arte di Stato. «Sironi, che pure nella pittura murale degli anni trenta si proporrà esplicitamente di esprimere "lo spirito della rivoluzione fascista", non creerà mai un'arte cortigiana, intenta a dimostrare enfaticamente la bontà del dittatore e la felicità del popolo». Si potrebbe aggiungere che, nella grande pittura murale e ufficiale, la forza sironiana si indebolisce.Tuttavia quella fascista fu una grande stagione della sua arte, che nel dopoguerra rischiò di essere demolita negli edifici pubblici e solo l'intervento diretto di Togliatti la salvò. Ma il regime cadde tra gli orrori della guerra, e la pittura di Mario mutò verso la tragedia pura. «Dipinge uomini murati nella pietra, sipari di rocce impenetrabili, sagome immobilizzate. Al volitivo "tu devi" si sostituisce un amaro "tu non puoi"». Al suicidio della figlia Rossana nel 1948 seguì un volontario o impotente isolamento, finché nel 1961 una polmonite pose termine alla sua vita.
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