domenica 28 gennaio 2018
Sono passati molti anni da quella vicenda, eppure la notte sembra sempre la stessa. Identica nel suo calarsi sul presente dell'essere umano, con la minaccia che poi si tramuti in una cappa di persecuzione. La storia, è vero, sembra non insegnare mai. Soprattutto quando non si è disposti a concedere il tempo al decalogo del capire e della misura. Ed anzi si è più solerti nel giudicare. Soprattutto in questo presente che non è più costruito soltanto dalle riprese della tv, dai titoli dei giornali, o dai resoconti radiofonici, ma ci presenta il conto anche con i nuovi mezzi tecnologici e i cosiddetti "media sociali". Dove gruppi di utenti generici si possono scambiare messaggi, condividere informazioni, immagini, video. E soprattutto sparare sentenze su qualsiasi cosa. Meglio se su qualcuno. Andiamo troppo di fretta.
Vivevano in un modesto, ma decoroso appartamento di due camerette ammobiliate, al terzo piano di una palazzina affacciata sulle fabbriche, alla periferia nord di Milano. Due genitori, insegnanti, trentenni, venuti dal Sud, e la loro bambina di poco più di due anni e mezzo di nome M. Di tempo ne è passato così tanto che i protagonisti, credo, meritano il diritto all'oblio dei loro nomi per esteso. M. aveva un caschetto con frangia di capelli neri, quando una domenica di aprile di una trentina di anni fa, il papà la porta d'urgenza in ospedale, con la sua vecchia Fiat 127 rossa. La bambina si lamenta, ha la febbre alta. Ha giocato tutto il giorno nel giardino, forse ha sudato e ha preso freddo. Poi quel giorno era anche il compleanno del papà, si festeggiava. C'erano parenti e anche degli amici dei genitori, nella minuta casa di periferia. E forse saranno state troppe le aranciate bevute fredde. Sta di fatto che la bambina continua a lamentarsi.
M. viene visitata prima in un ospedale dell'hinterland, poi a Milano. I medici del reparto di chirurgia pediatrica riscontrano lesioni che li inducono a pensare a un episodio di violenza fisica. Viene informato il tribunale per i minorenni. Viene aperta un'inchiesta e per la bambina si mette in moto il meccanismo per l'affidamento, per il tempo in cui rimarrà ricoverata in ospedale. I suoi genitori non possono più avere contatti con lei. Il tribunale avvia anche la pratica per togliere al padre la patria potestà. È sul padre, infatti, che grava il pesante sospetto di essere responsabile di qualcosa di indicibile. La notizia finisce subito pubblicata su un quotidiano. Ha inizio un lungo calvario che il genitore pagherà, oltre che con la gogna mediatica, anche con tre infarti oltre alla perdita di otto dei suoi 120 chili di peso.
Passa un mese. Peggio che essere caduti all'inferno. Per la famiglia è un incubo, fotografi, giornalisti, minacce telefoniche. Un giorno di maggio il cielo si spalanca d'azzurro. Viene depositata la perizia medico-legale che esclude ogni ipotesi di violenza: «Le lesioni devono essere attribuite ad una esplorazione digitale di una zona del corpo già indebolita dall'assunzione di farmaci». M. torna tra le braccia di papà L. e mamma M. Ma quella felicità dura poco più di un anno. M. muore per le conseguenze di un tumore maligno congenito dalla nascita, a metà strada tra la vescica e il retto.
Fu un capo dello Stato, Francesco Cossiga, il giorno dei funerali della bambina a chiedere scusa ai genitori di M.: «Per le ingiuste sofferenze che la terrena limitatezza dell'attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto e per i peccati di indifferenza e leggerezza di cui una intera società si è resa colpevole verso di voi. Lasciate che gli uomini piccoli rimangano nella loro confusione». Sì, andiamo troppo di fretta.
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