mercoledì 5 gennaio 2011
Almeno due sono i temi offerti dal nuovo libro di Roberto Calasso, L'Ardore, sui quali occorre spendere qualche parola oltre a quelle sparse la settimana scorsa in questa rubrica.
Il primo tema è il ruolo dell'inclassificata e irrintracciabile erba delle montagne che si chiamava soma, ed era al contempo un dio. Siamo nell'India vedica, intorno al 3.000 a.C. Come Agni (il fuoco), Soma è un dio nato in cielo e poi trasferito sulla terra, ed è «il fuoco allo stato liquido». Perché gli uomini possano trovare gli dèi, necessitano del soma, la bevanda inebriante ricavata dalla misteriosa pianta, ma anche gli dèi ne hanno bisogno per essere dèi: «Soltanto nell'ebbrezza dèi e uomini possono comunicare». Il sacrificio del soma si celebrava secondo un complesso rituale, in cui il soma veniva spremuto e pigiato (ucciso) in un mortaio.
E con ciò siamo già nel secondo argomento che innerva tutta la ricerca di Calasso, fin dalla Rovina di Kasch (1983): il tema del sacrificio. La domanda ultima è: «Perché, se si vuole stabilire un contatto fra l'umano e il divino, occorre uccidere un essere vivente? O almeno distruggere - bruciando o versando - una certa quantità di una qualche materia?».
È una domanda senza risposta o, meglio, è una domanda la cui risposta è una costatazione: ogni civiltà, dall'India vedica alla classicità greca e romana, il sacrificio è centrale. Ne dà testimonianza la Bibbia, dal sacrificio di Abele, che offriva il meglio del suo gregge, al sacrificio di Noè che dopo il diluvio sacrifica alcuni animali scampati con lui nell'arca, all'inquietante sacrificio di Abramo, e poi di Mosè, e via via fino (tratteniamo il fiato) al sacrificio di Cristo.
La modernità ha abolito il sacrificio o, piuttosto, l'ha sotterraneamente secolarizzato: la guerra (in particolare la prima Guerra mondiale) è un'ecatombe di sacrifici umani, come i gulag e i lager nazisti (non per caso lo sterminio degli ebrei è l'«olocausto»), come le varie «pulizie etniche» o le stragi di Pol Pot. E, aggiungiamo noi, come l'aborto legalizzato, rito diabolico in quanto perverso sacrificio dell'innocente.
Calasso attribuisce a Lutero lo spartiacque nella storia occidentale del sacrificio. Lutero, infatti, dichiarò che intendere la messa come sacrificio era «l'abuso più empio». Ma la risposta della Chiesa cattolica fu inflessibile, e il Concilio di Trento, il 17 settembre 1562, anatemizzò chi sostenesse che la messa non sia vero e proprio sacrificio a Dio.
Calasso, che singolarmente cita il Concilio di Trento con le desuete parole di Paolo Sarpi (1552-1623), riconosce nella risposta cattolica a Lutero «l'arcana e arcaica sapienza della Chiesa romana, la sua capacità di riconoscere dove era in gioco un fondamento della sua stessa esistenza». Ma, aggiunge, «era una battaglia già perduta. Lutero non segnalava soltanto che una parte della società religiosa voleva disfarsi del sacrificio, ma che l'intera società secolare, nel suo dilagare sulla scena del mondo, avrebbe guardato al sacrificio come a un'istituzione insensata, da respingere nel magazzino delle anticaglie».
Le cose però, non stanno esattamente così. A parte certa deriva luterana in alcune abusive applicazioni del Concilio Vaticano II, la Chiesa ha sempre sostenuto che la messa è un vero sacrificio. Basti ricordare che il Catechismo della Chiesa cattolica, sintesi autorevole del magistero conciliare, al n. 280 del Compendio afferma: «Il sacrificio della Croce e il sacrificio dell'Eucaristia sono un unico sacrificio. Identici sono la vittima e l'offerente, diverso è soltanto il modo di offrirsi: cruento sulla Croce, incruento nell'Eucaristia».
Se, oltre a immergersi nella sterminata e affascinante bibliografia vedica, nonché nelle opere dello scomunicato Paolo Sarpi, ci si accostasse ai testi del magistero cattolico recente, ci si potrebbe rendere conto che la "battaglia" di civiltà non è del tutto perduta. Sussiste, anche nell'ottica di Calasso, un'oasi di speranza.
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