Anche per la politica un po' di grandezza oggi non guasterebbe
venerdì 3 febbraio 2017
Insopportabili sono le manie di grandezza. Non per colpa della grandezza (che va riconosciuta quando c'è) ma perché si tratta di manie. L'uso dell'aggettivo “grande” o great è diventato una moda della società dello spettacolo e dell'enfasi pubblicitaria. In politica e nelle valutazioni storiche il problema, però, diventa più serio. Le riflessioni di Simone Weil nei suoi ultimi anni di vita e che sono al centro del saggio testamentario La prima radice, propongono una sorprendente, radicale critica dell'idea di grandezza storica. Se definiamo grandezza quella di Napoleone, scriveva la Weil, diventerà difficile non considerare grande anche Hitler.
La nostra idolatria per i grandi uomini, per chi si impone, è temuto, ammirato, comanda e compie imprese comunque memorabili, ci fa dimenticare che una simile, cieca idea di grandezza ci fa accettare anche l'immoralità, l'abuso, la prepotenza, la violenza, la criminale irresponsabilità di molti “grandi uomini”, soprattutto carismatici capi politici. C'è anche da dire, tuttavia, che se la mediocrità può essere un accettabile antidoto alla follia politica (lo sostenne Enzensberger pensando alla Germania), quando politica e politici diventano troppo “piccoli” rispetto all'entità tragica dei problemi mondiali, si sente un giusto bisogno di qualcosa che superi, che vada oltre le desolanti angustie della nostra vita pubblica e dei suoi protagonisti. Penso sempre più spesso che alla politica vengano ancora attribuiti un valore e un potere eccessivi. Alle tragedie già avvenute e tuttora in corso (guerre, terrorismi, tirannie, migrazioni, devastazioni ambientali) non può esserci rimedio: non sarebbe un rimedio neppure se fossimo in grado di farle cessare all'istante. La politica è lenta, la sua prassi è burocratizzata e cerimoniale.
Non appena sento un linguaggio e qualche enunciazione che allarghi i comuni, ristretti orizzonti della routine politica, sento che un po' più di grandezza sarebbe necessaria. Apro il saggio di un vecchio dirigente del Partito comunista, Alfredo Reichlin, La storia non è finita. Lettera ai nipoti (Castelvecchi, pagine 84, euro 12,50) e avverto subito un tono che oggi quasi sempre manca. Il problema sollevato è quale tipo di vita umana e sociale corrisponda all'attuale assetto dell'economia mondiale. È un'idea di vita e di società che dovrebbe guidare la macchina economica, non viceversa. Il marxismo è stato nella testa di troppi una malattia del pensiero, ma è stato anche una forma disperata di umanesimo contro l'illimitato potere espansivo dell'economia capitalistica, oggi più dispotica che mai nel mutare l'intera antropologia sociale.
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