mercoledì 29 novembre 2017
Beppe, per tutti Beppe del Grappolo, ha appeso i coltelli al chiodo, dopo 41 anni di attività in un ristorante storico di Alessandria che di anni ne aveva 111. È passato dall'alluvione del 1994, quando il Tanaro arrivò come una furia, e ha ricostruito tutto dopo meno di un anno. Ma non è passato indenne dalla crisi o meglio da un sintomo evidente dei cambiamenti in atto. Del resto ogni crisi è l'anticamera di un cambiamento: se non si è disposti a modificare si soccombe, proprio come l'acqua del Tanaro che fa disastri.
Oggi pomeriggio a Borgonato i ristoratori lombardi si ritroveranno con l'assessore regionale alle Attività produttive Mauro Parolini per discutere proprio di questo: il cambiamento. Da un sondaggio svolto su un campione significativo di ristoranti, si scopre che solo il 4% dei clienti, italiani e stranieri, ordina un menu completo di almeno quattro portate. La maggioranza ordina due piatti, e un'altra parte significativa ne ordina tre perché non rinuncia al dolce.
Che dire? Non ci si aspettava un risultato così impietoso verso quel menu all'italiana che ha caratterizzato la ristorazione classica, ma questa è la realtà. Una tempesta perfetta che ha coniugato la minor disponibilità di denaro con l'esigenza di mangiare meno, giacché a un tratto ci si è accorti di essere ipernutriti senza una logica.
Detto questo, non basta che in un posto si mangi soltanto bene: occorre un servizio, perché la ristorazione è servizio innanzitutto. E se non si conosce chi si deve servire è difficile andare avanti: il pubblico cambia, secondo l'avvicendarsi delle generazioni e le nuove capacità di spesa, che non sono più appannaggio di una clientela fedele quanto si vuole, che oggi però vive con la pensione.
Così, mentre i giornali locali annunciavano che Beppe a fine anno chiuderà Il Grappolo che era la tavola della città, a Torino la sindaca presenta la riqualificazione di un'area, Porta Palazzo, con un'ondata di ristorantini. A Milano, invece, lo storico Giacomo vicino al Duomo ha aperto una rosticceria, che fu agli inizi dell'avventura famigliare a Torino. Segni dei tempi anche questi, ma vien da chiedersi quanto resisterà questa offerta bulimica di cibo, soprattutto nelle grandi città, dove ogni valorizzazione di quartiere, ex fabbrica e quant'altro, ha come chiave di soluzione il ristorante.
Certo è vero che città come Torino e Milano hanno avuto un beneficio turistico, che è scattato con le Olimpiadi del 2006 o con Expo 2015. Ma esistono analisi serie perché tutti questi spazi non diventino cattedrali nel deserto? Oppure che cannibalizzino gli altri locali? È la legge del mercato, dirà qualcuno scrollando le spalle. Intanto mangiamo. Vuol favorire?
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