giovedì 19 aprile 2018
«L'intellettuale – sosteneva Eugenio Montale in una tagliente serie di aforismi – dice che se Shakespeare vivesse adesso farebbe del cinema. Intanto vorrebbe farne lui". "Lui" sarebbe l'intellettuale, si capisce, ma in un certo senso sarebbe difficile sostenere che Shakespeare non abbia mai fatto del cinema. Non direttamente, perché lo impedisce la cronologia, ma per interposta persona sì. Dai primi esperimenti all'epoca del muto fino alle rielaborazioni postmoderne (il roboante Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann, per esempio, che nel 1996 riesce a combinare una paradossale fedeltà al testo con una spregiudicata ambientazione tra le gang di una Verona Beach molto simile alla Miami contemporanea), la storia del cinema potrebbe benissimo essere raccontata attraverso l'analisi dei film tratti dalle opere di Shakespeare. Come sempre, anche qui c'è un prima e c'è un dopo, e a segnare il discrimine è la carriera di sir Laurence Olivier, il gran mattatore delle scene e degli schermi britannici che nel 1944 avvia con Enrico V una serie di regie e interpretazioni shakespeariane destinate a fare epoca. Un'eredità rivendicata mezzo secolo più tardi dal suo connazionale Kenneth Branagh, che esordisce al cinema nell'89 dirigendo un altro Enrico V e che non manca di confrontarsi nel 1996 con il capolavoro riconosciuto del Laurence Olivier cinematografico-shakesperiano: Amleto, esatto (il film di Branagh, in effetti, è noto anche in Italia con il titolo originale di Hamlet).
I cultori, a dire il vero, hanno un debole per la pellicola che completa la personalissima trilogia del maestro, ovvero il Riccardo III del 1955, tanto più inquietante quanto più incentrata sul fascino dell'eroe negativo. Però Amleto è Amleto, non c'è niente da fare, e a confermarlo sono i quattro premi Oscar attribuiti nel '49 al film, allo stesso Olivier per il ruolo del protagonista e – dettaglio non irrilevante – ai costumi di Roger K. Furse e all'allestimento scenico realizzato dallo stesso Furse in collaborazione con Carmen Dillon. Una delle caratteristiche dello Shakespeare cinematografico di Olivier sta nel conservare sempre una traccia ben riconoscibile, se non addirittura dichiarata, dell'originario impianto teatrale. Anche nell'Enrico V, dove sono più frequenti le scene girate in campo aperto, la suggestione del palcoscenico è sempre in agguato, per non parlare del ricorso strutturale alla messinscena su cui si fonda il Riccardo III, dramma dell'inganno e della delusione.
Amleto esibisce, anche sotto questo profilo, un equilibrio perfetto, che permette di sorvolare su alcune circostanze altrimenti poco convincenti, prima fra tutte l'età di Olivier, che con i suoi quarant'anni compiuti sarebbe ormai fuori parte per il principe danese. Teatrale è il palazzo di Elsinore, tra cui le cui mura affrescate si consuma l'amore disperato di Ofelia, impersonata da una magnetica e giovanissima Jean Simmons. E teatrale è la maschera del Polonio di Felix Aylmer, per non parlare della matronale Gertrude di Eileen Herlie. Il risultato, però, è strepitosamente cinematografico. La scena cruciale del monologo di Amleto ("Essere o non essere") si apre per esempio con una carrellata su una scalinata labirintica e quasi piranesiana, sfocia su un mare in tempesta ripreso dal vero e si sofferma poi sul primo piano del protagonista, che da ultimo si consegna a una foschia suscitata ad arte nella piccola Hollywood insulare dei Pinewood Studios. Non c'è soluzione di continuità fra un'inquadratura e l'altra, e non soltanto perché il carisma di Olivier è tale da tenere soggiogato lo spettatore. Il fatto è che Shakespeare è già cinema, anche senza bisogno di accorgimenti tecnologici. Ma questo, in fondo, lo sapeva anche Montale.
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