martedì 20 gennaio 2015
La Juventus di Max Allegri non fa rimpiangere quella “intensa” di Antonio Conte. Anzi: la nuova Signora, consegnata fra mille dubbi (tifosi) all'ex odiatissimo allenatore del Milan, ha fatto un bel passo avanti anche in Europa, permettendosi di sognare il traguardo più ambito, la Coppa dei Campioni. E oggi guarda la Roma dall'alto di 5 punti di vantaggio in classifica. Se ne discute, oggi, chiedendosi se i successi bianconeri derivino dall'abilità dei condottieri piuttosto che dalla bravura dei pedatori. Il dibattito è antico, una volta di più un dato di fondo viene messo in discussione: al tecnico vanno addebitate tutte le responsabilità degli insuccessi ma se la squadra vince la sua percentuale di merito va dal 15 al 20 per cento; in questo caso, se permettete, ho un'idea diversa ch'è cresciuta, nel tempo, attraverso le esperienze fatte con Bernardini, Trapattoni, Bearzot, Lippi, Capello e pochi altri panchinari di qualità il cui merito, nei successi, è altissimo, determinante. E siccome sono all'antica, credo ai mister che arrivano da lontano, dopo una dura gavetta. E vi spiego perché: da tempo vado in giro per l'Italia a raccontare ai colleghi giornalisti non solo sportivi le mie esperienze cinquantennali, partendo dalle scarpinate da cronista di “nera” e dai campionati di Serie D e dintorni con scalata quinquennale ai vertici della A. Adesso che è di moda il Carpi padroncino della B mi piace, ad esempio, ricordare i tempi lontanissimi in cui raccontavo le imprese della piccola squadra dei tessitori emiliani. Con questa mentalità - che confesso molto osteggiata nel bel mondo del pallone - il confronto d'attualità fra Conte e Allegri mi porta a coinvolgere automaticamente il disastro del giorno firmato Inzaghi (l'altro, che riguarda l'Inter, non coinvolge per ora Mancini ma Moratti e Thohir, anche se di quest'ultimo si sono perse le tracce...). La Juve non è fortunata ad aver trovato un Allegri vincente: lo ha cercato, rinunciando a sperimentazioni audaci come quelle che avevano portato sulla panchina bianconera il pur bravo e corretto Ciro Ferrara. E ha cercato nel ruvido livornese di poche parole quello che aveva trovato nell'irruento e polemicissimo pugliese: una grande esperienza. Quasi coetanei (Conte è del '69, Allegri del '67) i due hanno fatto il giro d'Italia delle panchine di provincia (5 il primo, 8 il secondo) in un crescendo rossiniano che li ha portati al servizio di Madama dopo avere appreso non solo l'arte pedatoria ma anche la libertà d'interpretarla senza incatenarsi a moduli o tattiche precisi, anzi mostrandosi capaci di utilizzare gli uomini giusti e le giuste mosse al momento giusto, proprio come i maestri e i maghi d'antan. Entrambi sono poi dotati di un carattere forte, di uno spirito indipendente che hanno mostrato fin dai tempi dell'Arezzo (Conte) e del Sassuolo (Allegri) diventando collaboratori privilegiati e non schiavi dei presidenti, anche se di Allegri si deve ricordare lo spirito aziendalista che l'ha fatto complice della demolizione del Milan. Il dettaglio caratteriale ci porta a Inzaghi, che oggi invece paga anche la scelta generosa di Berlusconi, prima incassandone gli ossessionanti consigli tattici, poi l'umiliante coabitazione con Sacchi. E infatti il buon Pippo cosa può dire, oggi, se non «è tutta colpa mia»? Con Seedorf - un altro grande privo d'esperienza - non sono riusciti a usar prepotenza, se non cacciandolo. E la vittima vera resta il povero Milan.
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