mercoledì 17 maggio 2017
La piccola collana “Lampi d'autore”, delle bolognesi Edizioni Dehoniane (piccola quanto al formato: cm. 10x16,5), inaugurata dalla curiosa Predica sul dormire in chiesa, di Jonathan Swift, comprende brevi e sàpidi testi di Seneca, Papini, Pirandello, Maritain (Un moscerino stupefatto) e perfino consigli per Pranzi di magro di Pellegrino Artusi.
La nuova perla della collana è Stazione di Baranovitch, di Shalom Aleichem (pp. 120, euro 9,50), che ci fa conoscere un autore ucraino che ha legato i nastri rosa della letteratura yiddish. Come spiega la curatrice Paola Leoni, Shalom Aleichem è lo pseudonimo di Shalom Rabinowitz (1859-1916), che esordì con una traduzione in ebraico del Robinson Crusoe di Daniel Defoe. Incoraggiato dal padre, fece ottimi studi, e si adoperò per dare dignità letteraria allo yiddish, la lingua ebraico-tedesca parlata in tutta l'Europa orientale.
Nel 1883 sposò la figlia di un ricco proprietario terriero di Kiev, che gli diede sei figli. Morto il suocero nel 1885, Aleichem nel 1890 fece bancarotta e dovette fuggire all'estero con la famiglia. Intanto pubblicava i primi romanzi anche in forma di epistolare e tra il 1900 e il 1905 realizzò l'obiettivo di mantenere sé e la numerosa prole con i suoi proventi di scrittore. In Italia, Bompiani fece conoscere il suo Kasrilevke nel 1962; nel 1994 Theoria pubblicò i Racconti ferroviari di Aleichem, fra i quali i tre scelti per Stazione di Baranovitch, in traduzione aggiornata.
Aleichem fece in tempo a conoscere il vecchio Tolstoj e il giovane Gor'kij, in contatto con l'ambiente intellettuale dell'epoca. I primi pogrom seguiti alle rivolte socialiste russe costrinsero la famiglia Aleichem a riparare in America nel 1906. Al rientro in patria ebbe grande successo con recitals delle sue storie, anche umoristiche. Colpito dalla tubercolosi, si curò a Ginevra e, in Italia, a Nervi, pubblicando nuovi romanzi. Allo scoppio della prima guerra mondiale si rifugiò in Danimarca, poi ancora negli Stati Uniti, dove morì nel Bronx il 13 maggio 1916.
I tre racconti di Stazione di Baranovitch sono un affaccio sul mondo yiddish connotato da un'identità culturale così forte da sfiorare l'apartheid, un mondo solidale e rituale oggi impensabile. Sono racconti ferroviari, nati da chiacchiere tra viaggiatori, gente che parla, parla, per il piacere di narrare e di sentirsi narrare in una lingua cerimoniosa piena di incisi – «Raccontava sempre mio padre, su di lui sia pace»; «Perché mi guardate? Non capite?»; «Non vi spaventate!» – e, qui sta il bello, sono racconti interrotti, senza conclusione, appunto come un viaggiatore che lascia a mezzo la storia perché deve scendere dal treno.
Così nel racconto eponimo, che è il più lungo, non sapremo come sarà andata a finire con quel Kiwke che, fatto uscire dalla prigione con uno stratagemma dai suoi compaesani, incomincerà a ricattarli chiedendo soldi, soldi, soldi, dalla città estera in cui era rifugiato.
E chi sarà mai L'uomo di Buenos Aires, che viaggia in terza classe per il piacere della compagnia, mentre potrebbe stare comodamente in prima, come attestano il portafogli gonfio che estrae dalla tasca interna dei pantaloni, e l'anello pesante, d'oro, con un diamante che luccica al sole? Un uomo d'affari, ma di quali affari? Racconta la sua scalata da impiegato a socio proprietario, ma di che ditta, di che cosa? Forse fa del contrabbando, o è un semplice fanfarone, un bugiardo? Né i compagni di viaggio, né i lettori lo sapranno mai.
Nel terzo racconto, poi, Tomba di famiglia, un tizio, di ritorno dal cimitero, racconta della figlia così bella, così brava, traviata dalla cattiva compagnia di un ragazzo che le fa leggere libri cattivi che descrivono suicidi, così anche la figlia e un'amica si uccidono. Ma a chi sta parlando il narratore? Forse a un compagno che nel frattempo si è addormentato?
Singolari racconti che si esauriscono nel raccontare, racconti ferroviari in cui la meta è meno importante del viaggiare.
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