sabato 11 aprile 2020
La Pasqua ha rappresentato sempre per me un giorno felice: forse il sole di primavera che incomincia a farsi più
spazio nel
cielo, forse quell’aria sottile che cancella l’umidità dell’inverno e il passaggio veloce di nuvole chiare spinte dal vento mi portano serenità e allegria. Lo so che non è questo un tempo felice, ma la felicità è un’esperienza personale che cresce non per forza di volontà,
non come una battaglia sulle onde dell’oceano, ma piuttosto come in una barca a vela lungo il fiume della nostra vita. Così oggi che non posso andare al mare, né passeggiare nei campi mi appoggio alla mia poltrona e mi racconto altri giorni di Pasqua felici. Potevo avere circa dieci anni quando nella nostra casa di Roma che aveva, come unica ricchezza, la vista vicinissima alla cupola di San Pietro, quel giorno mio padre pensò, pur nella sua modesta vita di impiegato, di invitare a pranzo due fra i suoi amici antifascisti del tempo. La cosa procurò alla zia, che viveva con noi e si occupava delle provviste per la cucina, qualche problema e dopo essersi consultata con la mamma decise di preparare un famoso risotto che era il piatto forte della casa. Non ricordo quale fosse il secondo, ma fui invece entusiasta nel vedere preparata la crostata dei giorni di festa. Del menu se ne parlò per una settimana finche la mamma venne nominata
responsabile per la parte elegante della tavola e del vecchio salotto e la zia prese in mano la cucina con tale serietà che le mancava solo il cappello da capocuoco. A me venne applicato un antico colletto di merletto, appartenuto cinquanta anni prima alla mia nonna ricca, sul mio normale golf blu. La mia sorella più giovane si dovette accontentare di un collettino bianco più modesto. Ma ci sentivamo bellissime e già grandi per aver ottenuto un posto a tavola con gli ospiti. Nostro padre quel mattino venne a casa con una bottiglia di lambrusco, lui che assaggiava soltanto qualche bicchiere del vino bianco dei Castelli romani! E
tutto era pronto quando suonò il campanello e i famosi ospiti
ci trovarono tutte in fila per il saluto di convenienza. Sorrisi, ricordi, malinconie di un tempo di libertà perduto, ma anche serenità per un futuro forse diverso da quello della dittatura che stavamo soffrendo. Infine, un pranzo sereno e felice per un’amicizia antica e sicura. Qualche domanda circa i nostri studi toccò anche a noi due che occupavamo assieme l’ultimo posto della tavola. Ma arrivò il momento del dolce e finalmente si doveva aprire il Lambrusco che purtroppo era rimasto al caldo sulla credenza! Nostro padre si alzò e con un mezzo discorso sull’amicizia tentò di togliere il tappo alla bottiglia. Il vino uscì veloce e inaspettato segnando di rosso ogni cosa che incontrava: le pareti appena ripulite, le teste quasi prive di capelli dei due ospiti, l’abito nuovo della mamma mentre cercava di passare il suo tovagliolo sul viso degli invitati. Nostro padre in piedi a capo di quella tempesta cercava di chiudere la bottiglia con il pollice con il risultato che il famoso lambrusco usciva più veloce e vittorioso. Mia sorella e io nascoste sotto al tavolo salvammo per quella volta i nostri colletti di merletto.
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