martedì 21 marzo 2017
Fuori dal Comune... per qualche adempimento o riunione talvolta a noi assessori tocca pure recarci in Provincia, o persino in Regione. E – volenti o nolenti – ci andiamo sempre col cappello in mano, come i classici "provinciali" che accedono alla reggia del signore: il quale benevolmente concede loro udienza. Si comincia dall'ingresso della maestosa e modernissima sede, dove l'usciere (anzi: gli uscieri) figura come insindacabile plenipotenziario: di lì non si passa senza il suo beneplacito, digitalmente corroborato dal controllo dei documenti e dalla verifica sui tabulati dei visitatori previsti. Giustissime precauzioni. Ma a noi poveri amministratoruncoli viene subito in mente la porta sempre aperta del Comune, dove potrebbe entrare (e qualche volta lo fa pure...) qualunque esasperato energumeno locale.
Ottenuto comunque il privilegio di un badge e passate le forche caudine del metal detector, si ascende al piano che più è alto, più indiscussa risulta la maestà di colui che ci ha convocato. Spazi immensi si spalancano allora: ampi luminosi corridoi, ai cui incroci solerti addetti stanno assisi al desk delle informazioni; sale riunioni quasi sempre deserte, però ben dotate di impianto audio e video; uffici moderni e silenziosi, che sicuramente permettono ai numerosi lavoratori ivi impiegati un comfort ottimale...
Ammiriamo dunque a bocca aperta lo standard di qualità con cui la nostra Regione può finalmente presentarsi a testa alta di fronte a qualsiasi visitatore: basta ambienti polverosi e con pile di scartoffie accumulate negli angoli, scrivanie rimediate chissà dove e scaffali traballanti! E il petto si gonfia di patrio orgoglio al pensiero di quanto la pubblica amministrazione qui appaia nel fulgore di un'immagine d'efficienza, niente da invidiare a qualunque supponente multinazionale con uffici in centro e fatturati in salita.
Però noi, che stiamo lì sempre col cappello in mano (a meno che l'eccessiva aria condizionata non ci abbia già costretto a calzarlo di nuovo), non possiamo fare a meno di pensare alle stanzette in cui si accalcano invece i nostri dipendenti, site magari in prestigiose ville d'epoca (il Comune si è svenato per acquisirle e salvarle dal degrado) ma in cui anche gli infissi e i servizi igienici sono inequivocabilmente "d'epoca", e che da anni non vedono un'imbiancatura decente, e dove le opere per il tanto decantato "efficientamento energetico" sono rinviate a data da destinarsi perché già sarebbe un gran bel successo ottenere il rispetto delle regole di sicurezza degli impianti elettrici...
Basta con le lamentele, comunque; noi gente di paese, in fondo, siamo umili ma dignitosi e non siamo abituati a piangerci addosso. E tuttavia il pensierino ci rode come un tarlo maligno che non se ne vuole andare: perché mai sui nostri Comuni incombono tetti di spesa sempre più claustrofobici, e invece qui sembra che non viga alcun limite all'altezza dei grattacieli? Com'è possibile che le spending rewiev e i patti di stabilità ci impediscano anche solo di rimpiazzare il personale che va in pensione (oggi siamo a un assumibile ogni 4 uscite), e al contrario qualcun altro può permettersi di coprire i posti con un'abbondanza che sarà certo ponderata, ma che alle nostre strettezze suona addirittura insultante? Eppure siamo – saremmo – tutti della stessa "famiglia", no? Così, ridiscesi a terra dai piani alti della pubblica amministrazione, meditiamo sulle banalissime e populiste costanti della storia per cui chi sta in basso è sempre costretto a tirare la cinghia anche per mantenere le prerogative (i privilegi?) che altri si sono generosamente auto-riservati: oggi come ai tempi del Re Sole. E il fatto che in ogni piramide ci sia sempre qualcuno che si trova a un livello inferiore, ancor di più ci rattrista: pensiamo infatti che, persino entrando nel più sgarruppato dei municipi, ci saranno probabilmente cittadini cui apparirà eccessiva la distanza da un certo ambiente. Non si è mai umili abbastanza da farsi perdonare il (presunto) "potere".
r.beretta@avvenire.it
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