venerdì 30 luglio 2021
C'è una parola che è scomparsa dal linguaggio dei critici e forse anche di tanti storici della letteratura, meno i mediovalisti, e che si direbbe che nessun giovane scrittore e nessuna giovane scrittrice o di mezza età abbiano mai sentito nominare (con l'eccezione, credo, di Aldo Nove...). È la parola quête (o queste), che in italiano veniva tradotta ricerca o cerca. La quête era la ricerca del Santo Graal, era l'inquietudine che muoveva gli eroi del ciclo arturiano i Perceval e i Lancelot e i
Tristano, ma anche a volte le loro dame, su fino ai paladini del Tasso e dell'Ariosto e ai Guerin Meschino della letteratura europea di colportage. Fu una chiave decisiva per l'affermazione di una letteratura esigente, che chiedeva ai lettori di condividere l'inquietudine dei suoi eroi, poi trasferita solo in piccola parte nel “romanzo di formazione”, dove contava diventare e farsi adulti , affrontare la società e la storia più che cercare la verità profonda delle cose, la verità (e dunque il senso) dell'esistenza. Il Graal significava infine questo, credo: la ricerca, la “cerca” di una risposta alle eterne domande “chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo?”, che continuarono e a volte continuano a porsi i grandi scrittori ma, è ovvio, anche i filosofi e gli scienziati, ma che erano anche, e infine soprattutto, domande “religiose”. Della parola quête mi inquietò ragazzo la somiglianza con una parola del mio dialetto umbro, la catta, che era sì carità (chiedere la..., fare la...), ma che mi sembrava anche, per il poco che avevo letto nell'amata Bur, qualcosa di più, pur vedendo spesso unito l'andare dei pellegrini (penso al grande romanzo, e ai suoi “vecchi credenti”) a quello di altri cercatori, migranti, mendicanti, operai e compagnons de voyage, in un legame che è spesso difficile, giustamente, da districare. Insomma, il senso, il perno, la necessità della letteratura stava una volta in tutto o in parte in questo, nella cerca, nella quête del senso profondo dell'esistenza, e del bene e del male, della loro “ragione”. È forse l'abbassamento e appiattimento delle ambizioni (raccontarsi e intrattenere inventando storie a una sola dimensione) ad aver reso piatto e superfluo il 90 per cento e più della letteratura contemporanea? E non penso soltanto a quella, oggi così fragile o superflua, dei nostri connazionali.
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