giovedì 3 ottobre 2013
Oggi ho telefonato alla mia monaca. Bisogna sapere che ne ho una: amica della remota adolescenza, mia, e della lontana giovinezza sua. Anni fa si era rifatta viva, dopo ben più di mezzo secolo; e poi io avevo riempito per tre mesi questo spazio sul giornale con una rubrica di lettere indirizzate a lei. Il suo convento è ai margini d'un paesino di montagna, dentro la Sardegna. Non ci sono mai stato; e lei non l'ho mai vista. Ora non ci sentivamo da tanto; temevo fosse morta. Ma conservo il numero del cellulare da cui una volta mi aveva chiamato. Mi ha risposto, subito, una voce incerta: era lei, mi ha riconosciuto. Che ci siamo detti? Poco, praticamente nulla. «Sono sulla sedia a rotelle», ha premesso; e io mi sono sdebitato accennando ai miei guai. Aveva poca voglia, era stanca, era imbarazzata? Le ho chiesto una preghiera (non era una clausola di stile). Lei ha concluso: «Preghiamo insieme». Mi resta un senso di incompiutezza, di vuoto. Mi sento in qualche modo inadempiente. E invano mi dico che la preghiera idealmente comune da lei proposta sarà un modo di pagare. Non è così facile; ed è giusto che non lo sia. Non senza il perdurare di questo innominato disagio, che integra il prezzo. Ci parleremo ancora? Può darsi; e può darsi invece non succeda. Forse è stato un ennesimo addio.
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