mercoledì 13 agosto 2003
Dolce è, quando i venti sconvolgono le acque nel vasto mare,/ contemplare da terra l'altrui gran fatica. Lasciatemi citare nell'originale - per quelli che conoscono e amano il latino - questo distico del De rerum natura (II, 1-2) del poeta Lucrezio (I sec. a.C.): Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,/ e terra magnum alterius spectare laborem. È l'esperienza che anch'io talvolta faccio da quest'altura ove trascorro le vacanze: sotto si distende tutto il lago di Como e, quando si scatena una tempesta coi fulmini che saettano verso l'acqua e la costa, si rimane sempre stupefatti e si segue con più attenzione il passaggio dei traghetti e dei battelli divenuto più arduo e faticoso. Il sottile piacere che si prova stando al riparo, in una casa serena, mentre fuori irrompono i venti e la pioggia è una sensazione che tutti sperimentano, soprattutto di notte. Ebbene, vorrei assumere questa sensazione a emblema di un altro genere di esperienza di indole morale. Troppo spesso siamo chiusi nel guscio del nostro benessere e osserviamo con distacco l'arrabattarsi, l'affannarsi e persino l'annaspare degli altri. C'è una malcelata soddisfazione di andare e stare bene, mentre altri procedono in una sorta di corsa ad ostacoli. È, questo, uno dei corollari dell'egoismo. Lo scrittore inglese George Bernard Shaw nella sua opera Il discepolo del diavolo osservava che «il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio ma l'indifferenza». La celebre reazione di Caino è, al riguardo, esemplare: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Genesi 4, 9). Una frase che troppo spesso, in forme forse meno brutali, adottiamo un po' tutti, guardando con distacco «l'altro che fatica».
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