giovedì 3 marzo 2016
Eccessi di sicurezza dove non li aspetteresti, e su temi essenziali. Spiace, per esempio, (“Repubblica”, 13/2) trovare due pagine (50/51) a firma illustre su tema importantissimo, ma con vuoti fondamentali. Titolo: «A sua immagine. L'eterna sfida dell'arte alla divinità». Silvia Ronchey sulla «iconoclastia» partendo dalla cronaca delle attuali distruzioni del «sedicente Stato islamico», e poi passa alla storia, da ciò che chiama «l'aniconismo» ebraico legato alla polemica biblica sulla idolatria, al platonismo e infine alla disputa secolare tra cristiani sulle icone che evoca «Origene, Eusebio di Cesarea, o Clemente d'Alessandria», ma che poi è superata con il principio dell'«immagine non più vietata, né permessa», che in realtà ha aperto la via a tutta l'arte, prima sacra poi anche profana. Ricco panorama, ma con assenza del vero senso del “secondo comando”, quel «Non ti farai immagini», di fatto poi abolito nella prassi catechistica, che torna al “Decalogo” – dieci – raddoppiando l'ultimo comando, per «cose» e «donna d'altri». Quel secondo comando dunque non ha alcuna relazione con pittura e scultura, ma evoca due essenziali temi della fede ebraica e cristiana. Il primo è che Dio «non si vede, ma si ascolta» (cfr. Dt. 4, 12), quindi non si può rappresentare, e il secondo è che la «vera immagine» di Dio esiste e vive (cfr. Gen, 1, 26): è «l'uomo» e solo in esso si può «conoscere» Dio. Ogni immagine è muta, come un idolo, ma Dio parla e chiede di essere riconosciuto nell'uomo che invoca soccorso. Non capire questo e pensare al divieto dell'arte, è ovvia libertà di opinione, ma nasconde l'essenza della rivelazione ebraico-cristiana, quella che nella pienezza porterà a ciò che papa Francesco dice «nucleo essenziale» della nostra fede: «Quello che avete fatto all'ultimo…lo avete fatto a me» (Mt. 25, 40).
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