mercoledì 31 agosto 2016
Ritorna, tradotta e curata da Giancarlo Pontiggia, Aurélia, l'estremo congedo di Gérard de Nerval dalla letteratura e dalla vita (Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pagine 104, euro 12,00). Nerval (1808-1855) è un autore monumentalizzato dai surrealisti nella prima metà nel Novecento. Compagno di liceo di Théophile Gautier, fu molto attivo nei circoli letterari parigini, dove dialogava con Hugo, Sainte-Beuve, Vigny, Lamartine, Musset, apprezzato e imbarazzante per i frequenti scatti d'ira che si patologizzarono in una sontuosa schizofrenia. Di certo era dotatissimo, se a diciannove anni aveva già pubblicato un'eccellente traduzione del Faust di Goethe.La sua vita e la sua opera sono segnate dallo stigma della morte della madre, quand'egli aveva solo due anni. Suo padre, medico e massone napoleonico, lo affidò a un prozio materno, interessato a studi esoterici e occultistici, che marchiarono alquanto il ragazzo. Lo straziante archetipo materno fu inseguito da Nerval nelle sue varie ispiratrici, prima fra tutte l'attrice Jenny Colon (morta nel 1842) che lo scrittore fa rivivere in Aurélia. I ritratti femminili di Nerval (Angélique, Sylvie, Jemmy, Octavie, Isis, Corilla, Émilie...) confluiranno nelle Filles du feu (1854), considerato il suo capolavoro.Una cospicua eredità del nonno materno (peraltro rapidamente dissipata) consentirà allo scrittore di intraprendere lunghi viaggi in Europa e in Oriente, per nutrire di miti e leggende la sua solida cultura classica, dando luogo alle Promenades et Souvenirs composte tra un ricovero e l'altro in cliniche psichiatriche e pubblicate nel 1854.Ben si capisce l'interesse dei surrealisti per una prosa, come quella di Nerval, in cui sogno e fantasticheria rivaleggiano sfarzosamente, quasi preludendo la «scrittura automatica» teorizzata nel Manifesto surrealista lanciato da André Breton nel 1924: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero».Invero, chi è meno interessato al delirio si muove a disagio nelle pagine di Aurélia, e deve reprimere il giudizio critico icasticamente sintetizzato nella fin troppo celebre battuta liquidatoria di fantozziana memoria. Ma, all'inizio della seconda parte del racconto, c'è una resipiscenza importante: «Perduta, una seconda volta!», scrive Nerval riferendosi ad Aurélia-Euridice. «Tutto è finito, tutto è passato! Tocca a me ora morire, e morire senza speranza! – Che cos'è mai la morte? Se fosse il nulla... Iddio lo volesse! Ma neanche Dio può far sì che la morte sia il nulla. Com'è che è la prima volta, dopo tanto tempo, che torno a pensare a lui? Il sistema fatale che si era formato nel mio spirito non ammetteva la sua regalità solitaria... o piuttosto, essa veniva assorbita nella somma degli esseri: era il Dio di Lucrezio, impotente e perduto nella propria immensità». Fino a questa confessione: «Lei, nondimeno, credeva in Dio, e ho sorpreso un giorno il nome di Gesù sulle sue labbra. Sgorgava così dolcemente, che piansi. O Dio mio! Quella lacrima, – quella lacrima... Da quanto tempo è inaridita! Quella lacrima, Dio mio! Rendetemela!».Nerval è anche poeta per poeti. T. S. Eliot riprese nella Terra desolata (1922) un verso del più celebre sonetto narvaliano, El desdichado: «Le Prince d'Aquitaine à la tour abolie», affiancandolo a un verso del Purgatorio dantesco e a una citazione del Pervigilium Veneris, per concludere: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine».I testi di Nerval hanno sfidato i migliori traduttori italiani: dopo Decio Cinti (1904), fra gli altri, Oreste Macrì, Alessandro Parronchi, Maria Luisa Belleli, Diana Grange Fiori, Giovanni Mariotti, Bruno Nacci, Umberto Eco, e adesso Giancarlo Pontiggia.Gérard de Nerval si impiccò a un cancello della rue de la Vieille-Lanterne, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio 1855. La sua Opera omnia è raccolta in tre volumi della Bibliothèque de la Pléiade.
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