«Ma populista sarà lei»: Asor Rosa insiste con la politica di carta
venerdì 3 luglio 2015
Ci sono cose, per esempio la letteratura, che se non appassionano e non si imparano fra i quindici e i trent'anni, restano estranee per sempre. È successo, mi sembra, a un italianista come Alberto Asor Rosa, la cui giovinezza è stata ambiziosamente iperpolitica e pochissimo letteraria. Ha sempre parlato di letteratura pensando ad altro e con un malinteso senso di superiorità. Nell'introduzione al libro con cui si impose poco più che trentenne nel 1965, Scrittori e popolo (ora riproposto da Einaudi con un'appendice attualizzante sbrigativa e incongrua su “Scrittori e massa”, pagine 432, euro 32,00), Asor Rosa scriveva: «Della critica letteraria come tale non c'importa nulla»: si trattava infatti di «andare ben al di là», «fuori di questa società […] dunque fuori della cultura», poiché «tutto avrà un senso, solo nel momento in cui la classe operaia riconquisterà una sua organizzazione politica di lotta».Ciò che veniva denunciato era il populismo in quanto «valutazione positiva del popolo». Asor Rosa non faceva che applicare l'idea del suo amico Mario Tronti secondo cui il vero Marx era teorico di una classe operaia ontologicamente nichilista: una pura potenza distruttiva nel cuore del sistema capitalistico. Trovato il bandolo della sua matassa (il popolo è una fiacca proiezione piccolo-borghese tipicamente italiana, la classe operaia è un'entità invincibilmente antagonista), Asor Rosa non faceva che ripetersi per centinaia di pagine. Così un populismo modernizzato in operaismo sostituiva un mito a un altro, inscenando un conflitto edipico fra nuovi e vecchi intellettuali comunisti. Ma anche l'antipopulista Fortini fu da lui liquidato come ambivalente, irresoluto piccolo-borghese, non sufficientemente marxista.Quando la fase eroica dell'operaismo rivoluzionario si svuotò negli anni Settanta, Asor Rosa si trovò fra le mani una «materia letteraria» di cui non sapeva bene cosa fare. Diresse per vent'anni la ciclopica e impraticabile Letteratura italiana Einaudi e cominciò a scrivere per “la Repubblica” di Scalfari articoli né propriamente letterari né propriamente politici, ma sempre animati da indefinite ambizioni.
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