mercoledì 5 giugno 2013
Lamentarsi delle proprie sofferenze davanti a Dio non è peccato, ma una preghiera del cuore che arriva al Signore: è quanto ha affermato il Papa stamani nella Messa a Santa Marta. Erano presenti alcuni membri della Congregazione per il Culto Divino e della Biblioteca Apostolica Vaticana. Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, mons. Cesare Pasini e mons. Joseph Di Noia.
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Lamentarsi delle proprie sofferenze davanti a Dio non è peccato, ma una preghiera del cuore che arriva al Signore: è quanto ha affermato il Papa stamani nella Messa a Santa Marta. Erano presenti alcuni membri della Congregazione per il Culto Divino e della Biblioteca Apostolica Vaticana. Hanno concelebrato, tra gli altri, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, mons. Cesare Pasini e mons. Joseph Di Noia.La storia di Tobi e Sara, riportata nella prima lettura del giorno, è stata al centro dell’omelia del Papa: due persone giuste che vivono situazioni drammatiche. Il primo diventa cieco nonostante compia opere buone, rischiando addirittura la vita; la seconda sposa sette uomini che muoiono prima della notte di nozze. Entrambi, nel loro immenso dolore, pregano Dio di farli morire. “Sono persone in situazioni limite – osserva il Papa - situazioni proprio nel sottosuolo dell’esistenza, e cercano un’uscita. Si lamentano” ma “non bestemmiano”:“E lamentarsi davanti a Dio non è peccato. Un prete che io conosco una volta l’ha detto ad una donna che si lamentava davanti a Dio per le sue calamità: ‘Ma, signora, è una forma di preghiera quella. Vada avanti’. Il Signore sente, ascolta i nostri lamenti. Pensiamo ai grandi, a Giobbe, quando nel capitolo III (dice): ‘Maledetto il giorno in cui sono venuto al mondo’. E anche Geremia, nel XX capitolo: ‘Maledetto il giorno …’. Si lamentano anche con una maledizione, non al Signore, ma a quella situazione, no? E’ umano, questo”. Ci sono tante persone che vivono casi limite, ha sottolineato il Papa: bambini denutriti, profughi, malati terminali. Nel Vangelo del giorno – osserva – ci sono i Sadducei che presentano a Gesù il caso limite di una donna, vedova di sette uomini. Non parlavano di questa vicenda col cuore: “I Sadducei parlavano di questa donna come se fosse un laboratorio, tutto asettico, tutto … Era un caso di morale. Noi, quando pensiamo a questa gente che soffre tanto, pensiamo come se fosse un caso di morale, pure idee, ‘ma, in questo caso, … questo caso …’, o pensiamo con il nostro cuore, con la nostra carne, anche? A me non fa piacere quando si parla di queste situazioni in maniera tanto accademica e non umana, alle volte con le statistiche … ma soltanto lì. Nella Chiesa ci sono tante persone in questa situazione”. In questi casi – afferma il Papa – bisogna fare quello che dice Gesù, pregare: “Pregare per loro. Loro devono entrare nel mio cuore, loro devono essere un’inquietudine per me: il mio fratello soffre, la mia sorella soffre. Ecco … il mistero della comunione dei Santi: pregare il Signore: ‘Ma, Signore, guarda quello: piange, soffre’. Pregare, permettetemi di dirlo, con la carne: che la nostra carne preghi. Non con le idee. Pregare con il cuore”. E le preghiere di Tobi e Sara, che pur chiedendo di morire si rivolgono al Signore, ci danno speranza – sottolinea il Papa - perché sono a suo modo accolte da Dio, che non li fa morire ma guarisce Tobi e dà finalmente un marito a Sara: “La preghiera – spiega - sempre arriva alla gloria di Dio, sempre, quando è preghiera dal cuore”. Invece, “quando è un caso di morale, come questo di cui parlavano i Sadducei, non arriva mai, perché non esce mai da noi stessi: non ci interessa. E’ un gioco intellettuale”. Papa Francesco invita, infine, a pregare per quanti vivono situazioni drammatiche e soffrono tanto e come Gesù sulla Croce gridano: “Padre, Padre, perché mi hai abbandonato?”. Preghiamo – ha concluso –“perché la nostra preghiera arrivi e sia un po’ di speranza per tutti noi”.
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