mercoledì 10 giugno 2009
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Diceva di chiamarsi Ylenia, ma il cognome non lo sapeva nessuno. Aveva 45 anni, ed era russa – così almeno aveva raccontato alla sua padrona. Che l’ha trovata morta ieri mattina in casa, in un lago di sangue. Probabilmente, han detto gli inquirenti, un aborto spontaneo. Nessuno ha sentito niente, nell’appartamento di Torre del Mare, Bari. Laconico, il testo delle agenzie recita: «La donna è morta senza chiedere aiuto». Senza chiedere aiuto. Cercando di cavarsela da sola. Perfino di non sporcare: i carabinieri hanno trovato nella camera una bacinella piena di sangue, come se la prima preoccupazione della badante, ancora «in prova», fosse quella di non creare problemi. Non dare fastidi. Non macchiare i tappeti. Quella gravidanza tardiva, magari addirittura ignorata, o nascosta come una vergogna, è finita forse da sola, come un sogno troppo assurdo. Straniera, precaria, sola, non più giovane: anche solo l’angoscia di una simile maternità basta, per perdere un figlio. Comunque sia, un aborto consumato nel pozzo più nero della solitudine. Ylenia, forse, 45 anni, suppergiù, di cognome chissà. Nel passaporto infine recuperato c’è scritto Vira Orlova, 40 anni, ucraina, e non russa. Non c’è però il visto d’ingresso: irregolare, come mille altre che vengono in Italia mendicando di badare ai nostri vecchi, di lavarli, di imboccarli, per pochi euro in nero. Ma la badante appena arrivata, dicono, a Bari – chissà per quali sentieri clandestini – aveva, oltre al bisogno, oltre al pensiero della famiglia rimasta a casa, un inconfessabile segreto. Un figlio a 40 anni, che assurda storia; e guai, se lo venisse a sapere la padrona. L’ansia di ritrovarsi ancora su una strada. Andare a letto, una sera, covando l’angoscia che rode. Dopo avere preparato la cena, rigovernato, spazzato, andare a dormire, inseguita da quel doloroso tormento. Che, poi, era un figlio; ma le Vira Orlova a questo non possono neanche concedersi di pensare. Occorre mandare soldi a casa, e avere un tetto, e non farsi cacciare. Un figlio, per quelle come loro, è un lusso così audace che vietano a se stesse di pensarci. Andare dunque a letto inseguite dallo stillicidio di una indicibile angoscia. «Buonanotte, signora, buon riposo». Ma non è buona la notte, nella piccola stanza con una branda, un comò e la valigia. Sonni agitati interrotti d’improvviso: il sangue che s’allarga sulle lenzuola, inarrestabile. Nel panico, la determinazione fredda di non gridare, di non fare rumore. Cavarsela da sé. In ospedale, mai – quel visto sul passaporto che manca, e ti fa sentire inseguito. La bacinella del bucato. Non bisogna sporcare. Tutto, domattina, deve sembrare normale. Non ha chiesto aiuto nemmeno nel cadere a terra, dove l’hanno trovata. È morta zitta, come se quella casa fosse stata disabitata, e inutile, dunque, fosse gridare. È morta blindata nella più ferrea solitudine: lei, la sua storia, quel figlio, sconosciuti fra gente che non guarda in faccia le straniere chissà come e da dove arrivate. Sono braccia, che devono lavorare. L’ansia, nel buio della casa così lontana dalla sua, di farcela, di contenere quel sangue, di trascinarsi in bagno, senza echi. È finita così. Trenta euro nel portafogli, e un nome inventato. Russa, ucraina, insomma dell’Est. Di che città, non si sa; moglie, madre, chissà. E quel figlio poi, così povero e incauto, perduto in una notte di solitudine assoluta. Quel figlio, di cui solo Dio conosce il nome.
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